In questi sette giorni di interventi e di ricordi, fino al 12 settembre, sulle pagine di TP24 proveremo a ricordare la figura e la produzione di Michele Perriera.
di Anna Fici
Avete presente quel gioco reperibile all’interno della Settimana enigmistica che consiste nel collegare dei puntini fino a far venire fuori una figura? Ecco, questo è – credo – quello che la testata Tp24 sta lodevolmente cercando di fare oggi. Coinvolgendo alcune persone che in un modo o nell’altro lo hanno conosciuto, far emergere la figura di Michele Perriera, a dieci anni dalla morte, partendo dai tanti punti che la sua esperienza teatrale, umana e intellettuale ha unito. Sì perché mettendosi metaforicamente a fare quel gioco, si scopre che il risultato è un disegno complesso; infatti Michele Perriera non è stato soltanto un uomo ma è, tutt’oggi, un’ampia costellazione di sentimenti, sensibilità, talenti, idee, sogni. Per lo scenario culturale degli anni Sessanta, si è trattato di un vero big bang da cui è scaturita l’esperienza del Gruppo ’63 e molto altro. L’eroica storia della Scuola e della Compagnia Teatrale Teatès è un altro importantissimo tassello, nella costruzione generale della sua costellazione. La definisco eroica, senza timore di esagerare, perché di questa esperienza sono per un periodo stata parte e ne ricordo le fatiche, la passione e i risultati artistici già intrinsecamente grandi; enormi se si considerano le difficili condizioni nelle quali il Teatès ha spesso dovuto operare. Gli anni Settanta e Ottanta soprattutto sono stati anni di costruzione, in cui sia la Compagnia che poi la Scuola hanno messo a fuoco un’identità. Si trattava di una identità difficile da portare avanti, sia rispetto alla scena nazionale, sia rispetto a quella palermitana.
Nel panorama italiano le Scuole teatrali di tradizione, come ad esempio la nota Accademia dei filodrammatici di Milano, risentivano molto dell’approccio del Teatro dell’Arte, in cui lo spettacolo è cucito intorno ad un attore che, definito di volta in volta, capocomico o mattatore, regge su di sé la performance. Il teatro di regia faticava ad affermarsi nel nostro Paese. Anche se già nel 1929 Silvio D’Amico si era espresso a favore di una figura presente all’estero ma non ancora in Italia, ovvero quella del metteur en scène o inscenatore e contro la figura del mattatore (Silvio D’Amici, Il tramonto del grande attore, 1929), la sua rimaneva una visione letteraria del teatro, attenta, più che ad altro, alla restituzione filologica e fedele del testo. Non è un caso che la Scuola del Piccolo sarebbe stata avviata da Giorgio Strelher solo nel 1987, anche se l’apertura del Piccolo Teatro, come primo teatro pubblico, ovvero Stabile, risale al secondo dopoguerra e precisamente al 1947. Già a partire dalla metà degli anni Sessanta, anni notoriamente effervescenti sul piano politico, sociale e culturale, i Teatri Stabili sono stati accusati di non essere più capaci di rappresentare le istanze culturali del tempo e di proporre solo repertori già rodati, senza alcun azzardo. Gli autori legittimati dalla cultura teatrale dominante, se anche intrinsecamente vivi e corrosivi, come lo stesso Pirandello, venivano spesso “sedati“ da allestimenti che anteponevano l’osservanza della tradizione alla creatività della regia.
Sul piano locale, Palermo vedeva avanzare varie sensibilità. Quella di Franco Scaldati, drammaturgo, attore, regista, che si addentrava nell’animo popolare, facendo affiorare tutte le sue componenti – l’araba “lagnusia” e la spagnola spavalderia – che per via del suo approccio dialettale alla scrittura, ha ricevuto una legittimazione culturale troppo tardiva; una legittimazione su cui oggi c’è per fortuna ampio consenso.
«La lingua che avevo scelto – aveva dichiarato all’interno di una intervista che risale al 2008 – conteneva la vera storia dell’umanità. Non la storia con la S maiuscola, la storia che impongono i vincitori, ma la storia degli umili». Nella lingua risiedeva insomma la dimensione politica in senso ampio della sua opera.
Altre esperienze, a cui lo stesso Michele è stato vicino, come il Gruppo Teatro (1968-1981) di Gabriello Montemagno e Piero Violante o il teatro politico del CUT presso i Cantieri Navali (1967-1970), con la leadership di Antonio Marsala e dello stesso Montemagno, hanno portato in auge la provocazione di Brecht alla dilagante insensibilità borghese su temi come la violenza e la guerra. Avanzava anche il “teatro fuori dal teatro” sotto l’influsso di esperienze come il Living Theatre di artaudiana memoria. Poi, negli anni Ottanta, con un colpo di coda reazionario, la scena alternativa degli anni Settanta veniva istituzionalizzata e “normalizzata”.
In questo quadro di effervescenze incomprese o svaporate, essere Michele Perriera, essere il Teatès non era certo semplice. La chiave è stata la coscienza e il suo rapporto con l’inconscio che nel linguaggio di Michele faremmo meglio a definire “l’onirico”. Michele ha fatto suo il contesto internazionale, da Grotowski e da Barba ha preso un’attenzione quasi ossessiva per la fisicità, perché è da lì in teatro che passa l’anima. Ha interiorizzato da Brecht e Piscator la militanza contro ogni genere di oppressione. Ha affrontato le lacerazioni del suo tempo riportandole nella dimensione della metafisica. La figura del bradipo (Atti del bradipo, Sellerio, 1998), un eroe anti-eroe, ne è sinteticamente rappresentativa. Rappresenta il suo andare controtempo, non per banale e sdolcinato amarcord ma in virtù di una lucida, ricca, critica coscienza. Di una coscienza che è sfuggita ad ogni tentativo di intorpidimento, tematizzando l’intorpidimento stesso, la malia – parola cara a Michele – a cui ci ha consegnato la postmodernità. Penso alla sua regia-cavallo di battaglia de La cantatrice calva di Ionesco, replicata per anni. All’ironia affilatissima con cui ha restituito in più occasioni lo spirito del Teatro dell’assurdo di Ionesco e di Pinter.
Mentre tutto accelera, l’uomo, il padre, il cittadino si addormentano. Mentre una inaudita violenza si compie, tutti attorno vorticosamente danzano valzer alienati (Variazione su “I Cenci” di Antonin Artaud, regia del 1990). Era una straordinaria precognizione di ciò che accade in questi tempi di social-indifferenza, poi raccontati, in un linguaggio più vicino alle giovani generazioni dalla serie tv Balck mirror (2011 – 2019, anni di messa in onda sulle piattaforme digitali).
Molto altro ci sarebbe da raccontare ma per tutto ciò a cui ho fatto cenno ci sono testimoni e figure più autorevoli di me. E pubblicazioni in abbondanza. Per cui preferisco ritornare l’allieva, solo l’emozionata allieva che sono stata. Non mi sento, infatti, in grado di proporre altro che un ricordo di quello che questa esperienza, per me all’incirca decennale, mi ha lasciato. Di quello che credo abbia lasciato a diverse generazioni di teatranti e non solo. Sono appunto anch’io solo uno degli infinitesimali puntini di questa storia.
Nel 1985, quando io arrivai, la Scuola aveva sede in via Libertà, nel pressi di Piazza Politeama. La sede era, di fatto, un locale sotterraneo a cui si accedeva mediante uno scivolo. Credo che quella sede sia stata come un abito perfetto, un vestito su misura per ciò che lì accadeva, per l’atmosfera che si veniva a creare. Era un luogo di ricerca e di raccoglimento, un luogo-antro, una caverna platonica in cui la vita esterna con i suoi problemi si rifletteva trasformata, deformata dall’approccio visionario che ha caratterizzato Michele e la suo Scuola. Vi si arrivava con il carico dei propri da fari, delle proprie preoccupazioni quotidiane. Ma già percorrere a piedi, nel buio del tardo pomeriggio – le lezioni iniziavano alle 18.00 – i pochi metri di quella discesa era un po’ per tutti come un atto rituale di graduale accesso ad un “oltre” che chi era lì stava sicuramente, forse confusamente cercando.
Come mi è capitato di scrivere tre anni fa, alla morte di Lisa Ricca, la moglie di Michele che è stata anche la scenografa e costumista della Compagnia, nonché l’affettuosa complice di una vita: «C'erano delle aspettative in chi faceva i provini al Teatès e poi ne seguiva il biennio. C'era un bisogno erotico di salvarsi da se stessi, dai propri genitori, dalla banalità del male vivere; c'era un bisogno erotico di cercare un senso. E di condividere. Non come si fa adesso con un like ma mettendo in gioco il sudore dell'inconscio. Accettando di mostrarsi anche sporchi e cattivi per rinascere. E no. Non era psicoterapia anche se poteva sembrarlo. Guai a confondere le cose. Anche se noi stessi ci scherzavamo sul fatto che l'accesso alla Scuola fosse uno scivolo adatto alle ambulanze».
Di quegli anni ho una nostalgia graffiante. Perché solo allora ho vissuto l’esperienza della piena coscienza. Del vivere un tempo denso, di totale presenza. E di trovarmi dove precisamente desideravo essere, senza alcun altro desiderio, senza quel brusio di fondo a cui poi il nostro tempo dannatamente multitasking ci ha condannato. Non so quanti giovani e meno giovani oggi possano godere di un tale privilegio: ovvero di un tempo profondo, di un tempo senza tempo, di una vera durata da vivere con passione e creazione.
Attraverso i laboratori che Michele conduceva ogni venerdì, le profondità della mente, i suoi meandri, i suoi chiaroscuri, si distendevano davanti a noi, attoniti. E si trovavano subito a loro agio in quello spazio, fisico e relazionale, che gli corrispondeva così bene! Quando la penombra era fonte di concentrazione e nella penombra si stava stretti stretti sulle gradinate del laboratorio, per fare spazio all’altro, al nostro compagno, accadeva qualcosa di magico!
La capacità di commento delle nostre performance in Michele era straordinaria. Spesso ci rivelava a noi stessi. I pensieri complessi, l’intuizione della nostra segreta crudeltà di animali, la scoperta della fragilità come risorsa drammatica ed esistenziale, l’accettazione di sé, dell’essere costitutivamente contraddizione e dolore, e perciò interessanti come esseri umani e, talvolta, come artisti, sono stati gli straordinari ingredienti del nostro stare là. Non tutti, naturalmente, hanno proseguito con il teatro. Ma tutti lì hanno fatto esperienza della complessità dell’essere. E questa esperienza è sicuramente il più potente vaccino contro l’instupidimento, la semplificazione e banalizzazione della vita, il qualunquismo. Malgrado le molteplici differenze che sicuramente esistono tra tutti coloro che sono transitati al Teatès, questo è il dono che Michele ha fatto a tutti indistintamente: ci ha inoculato la vigilanza critica e in questo, credo, ci riconosciamo, anche se abbiamo partecipato a bienni diversi. Anche se non siamo stati compagni, ci ha resi comunque “familiari”.
Dunque, la costellazione di Michele è ancora ricca di stelle luminose. Stelle che si sono incontrate e ibridate con tutto ciò che luccica parimenti intorno a loro. Gli eredi delle diverse esperienze che ho prima citato, si ritrovano oggi spesso insieme concretamente o idealmente. Sono in tanti. Affrontano le difficoltà odierne del fare teatro, del fare cultura, che non sono da meno di quelle affrontate nei decenni di cui ho scritto. Sono diverse. Resistono alla velocità del consumo, anche culturale, alla sloganizzazione della comunicazione. Cercano di fare poesia.
Non è possibile citare i tanti esempi di ciò di cui parlo: attori, registi, artisti che, venuti fuori da quella Scuola, hanno fatto cose belle e profonde. Dimenticherei sempre qualcuno.
Però proprio in questi giorni si è presentato al pubblico (il 4 settembre a Palermo) il frutto di una esperienza che mette insieme l’essenza dell’oniricità di Michele e la poeticità popolare che di ascendenza potremmo ricondurre a Franco Scaldati. E’ il corto Rosalia a Danisinni, frutto del laboratorio teatrale Danisinni che da due anni è stato avviato da Gigi Borruso, coadiuvato da Stefania Blandeburgo, in uno spirito che era appartenuto anche a Michele. Ovvero di tirare fuori il tragico universale anche dal più locale e apparentemente ordinario dei dettagli. Ecco, questo è uno dei tanti esempi di commovente eredità. Come eredità sono purtroppo gli stenti in cui si muove questa esperienza.