Il capomafia Matteo Messina Denaro potrebbe aver trascorso un periodo della sua latitanza in provincia di Messina, in una villetta che si trova tra Santo Stefano di Camastra e Cefalù. Il boss trapanese sarebbe stato riconosciuto a Castel di Tusa, a metà strada appunto tra Santo Stefano di Camastra e Cefalù, da due collaboratori di Tiziano Granata, l’assistente capo della polizia di Stato, uno degli uomini che la notte del 18 maggio 2016 ha sventato l’attentato all’allora presidente del Parco dei Nebrodi.
La morte degli investigatori
Granata è poi morto, ufficialmente per arresto cardiaco, alla fine di febbraio del 2018 e qualche giorno dopo è morto a causa di una lecemia fulminante Rino Todaro, collega e amico di Tiziano: ambedue facevano coppia fissa e facevano parte della cosiddetta squadra dei vegetariani guidata dal vicequestore Daniele Manganaro e impegnata nella lotta alla mafia dei pascoli e a un poderoso traffico di farmaci scaduti e a truffe nella filiera degli animali destinati alla macellazione (operazione Gamma Interferon).
I vicerè delle agromafie
Granata, riferiscono i testimoni, avrebbe anche fatto delle verifiche sulla targa dell’automobile su cui viaggiava l’uomo che i suoi collaboratori hanno riconosciuto essere Matteo Messina Denaro (un’Audi A5 Sport coupè nera): targa risultata inesistente. L’episodio è ora raccontato in un libro “I viceré delle agromafie - storia di sbrirri, bovini, malarazza, antimafia e mascariamenti” (Armenio editore) di cui è autore lo scrittore siciliano Luciano Armeli Iapichino che da anni segue con passione le vicende della mafia dei pascoli sui Monti Nebrodi dove abita.
I legami del boss
Il boss di Castelvetrano, detto ’u siccu, latitante ormai da 27 anni, ha del resto avuto legami storici con Pietro Rampulla, l’uomo d’onore di Mistretta che è stato l’artificiere della strage di Capaci e quindi solide relazioni con le famiglie mafiose della zona che fanno capo al mandamento di San Mauro Castelverde cui appartiene anche il territorio di Tusa e dunque della frazione Castel di Tusa.
Il legame con Rampulla è stato recentemente ricordato dal pubblico ministero Gabriele Paci nell’ambito del processo di Caltanissetta sui mandanti delle stragi del 1992: per l’ultima primula rossa di Cosa nostra Paci ha chiesto l’ergastolo.
Le indagini di Granata
«Tiziano Granata è messo a conoscenza della cosa - racconta Armeli -. Temporeggia nel confidare e nell’intraprendere con i suoi superiori una qualche iniziativa perché teme che possa ostacolare qualche operazione in corso, vanificando in tal senso il lavoro di altri colleghi che lo braccano da tempo». conoscendo Granata non è escluso che abbia potuto approfondire in autonomia la pista, che abbia fatto domande e ricerche. L’episodio certo fa riflettere anche alla luce della strana morte dell’assistente capo della polizia che avrebbe condotto anche altre inchieste nei mesi che precedono la sua morte soprattutto sul fronte dei reati ambientali e delle discariche in provincia di Messina.
La Panda che non appartiene a nessuno
Certo è che Granata era allarmato per alcune circostanze: «Una pare essere quella di un soggetto che, sotto le false vesti dei servizi segreti, chiede informazioni a certi ristoratori di Sant’Agata di Militello (il paese sede del commissariato ndr), di cui Manganaro e Tiziano sono abituali clienti. Il soggetto si allontana a bordo di una macchina che se i ricordi non ingannano potrebbe essere una Fiat Panda. Dal terminale la targa non risulta essere intestata ad alcuno».
L’antica pratica del mascariamento
Misteri su misteri in un contesto in cui corvi e anonimi scendono prepotentemente in campo per screditare, è la tesi del libro, l’opera di pulizia avviata da Daniele Manganaro e i suoi uomini da una parte e dal presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci dall’altra. Un asse che trova alleati mafiosi di campagna e capi mafia storici, colletti bianchi e strani apparati. «La mafia oggi ha capito che può continuare a riproporre per colpire, oltre alle armi da fuoco, anche la vecchia quanto velenosa pratica del cosiddetto mascariamento, ossia il camuffamento sibillino della verità, insinuando il dubbio su coloro che combattono la mafia - scrive nella prefazione il presidente della Fondazione Caponnetto Salvatore Calleri -. Il libro di Luciano aiuta a comprendere tutto ciò. È un libro combattente».
Da Sole24ore -Nino Amadore