Oggi e domani sulle nostre pagine vi proporremo un approfondimento sui rapporti che legavano la famiglia Florio alla mafia, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Tutto quello che riporteremo è stato ripreso dal Rapporto Sangiorgi (1898/1900) e dai lavori dei principali studiosi dell'argomento (Salvatore Lupo, John Dickie, Orazio Cancila).
di Marco Marino
1. Un brusco risveglio
In una fredda mattina del gennaio 1897 i domestici del Villino Florio all’Olivuzza sono assaliti dal timore di svegliare i padroni di casa. Non sanno come dire loro che qualcuno, durante la notte, è riuscito a entrare nella residenza e a rubare molte, preziosissime opere d’arte. Però c’è qualcosa di strano. Dopo il suo brusco risveglio, Ignazio Florio junior sembra indirizzare le sue ire e dare la colpa non ai ladri, ma al suo giardiniere, un tale Francesco Noto.
2. Un giardiniere di cui fidarsi
Francesco Noto non è un giardiniere qualsiasi e nemmeno suo fratello Pietro è un guardaporta qualsiasi, alle dipendenze entrambi di uno dei più ricchi e famosi imprenditori d’Italia. Sono molto di più di un semplice giardiniere e di un semplice guardaporta. In realtà, dietro l’umiltà delle loro mansioni ufficiali, Francesco e Pietro Noto nascondono il loro vero ruolo: sono rispettivamente il capo e il sottocapo della cosca mafiosa dell’Olivuzza, assunti all’interno della villa progettata da Ernesto Basile perché la famiglia Florio possa trascorrere in tutta tranquillità le sue lussureggianti giornate da Bella Époque senza preoccuparsi della malavita palermitana.
Il furto in casa, quindi, è visto come un’incredibile anomalia. Chi oserebbe mai rubare in una casa direttamente sorvegliata dal capo mafia della zona? Qualcosa non quadra. Forse bisogna leggere quella ruberia in modo diverso, forse i ladri non erano davvero interessati agli oggetti d’arte sottratti, forse era un altro il messaggio che volevano dare.
3. A Palermo non si può mai stare tranquilli
Alla fine del secolo Palermo è una città tutt’altro che tranquilla. Soprattutto per i ricchi possidenti. Poco prima del furto all’Olivuzza un altro dei signori del vino siciliano, Joshua Whitaker, era stato costretto a pagare lo «scrocco» alla mafia cittadina, e in particolare a quella cosca dell’Olivuzza gestita dai fratelli Noto. La figlia di Whitaker, Audrey, di appena dieci anni, era stata rapita mentre era a cavallo nel Parco della Favorita. I rapitori avevano chiesto un riscatto di 100 mila lire, che Whitaker pagò subito e Audrey fu presto riportata a casa. Il noto produttore vinicolo negò in seguito che l’evento si fosse mai verificato.
L’estorsione ha però delle complicazioni. Non tra Whitaker e la cosca dell’Olivuzza. I problemi sono interni alla cosca stessa: due affiliati, Vincenzo Lo Porto e Giuseppe Caruso, non sono per niente soddisfatti della parte di guadagno che è spettata loro, e allora pensano di fare uno «sfregio» ai danni dei due boss. E per i mafiosi uno degli «sfregi» più gravi è proprio rubare in un’abitazione protetta da un mafioso. Ed ecco che ritorniamo nelle stanze, adesso spoglie, del Villino Florio.
4. Un secondo, felice risveglio
La reputazione dei fratelli Noto era stata oltraggiosamente macchiata. Ma non si scompongono e con giudizio e pazienza cominciano ad affrontare i torti subiti. Avendo dedotto i responsabili del misfatto, li contattano. Dicono a Lo Porto e a Caruso che avranno una parte più consistente del riscatto dei Whitaker, magari gli assicurano anche un’ulteriore ricompensa, e questi non perdono tempo e stanno al gioco. Non possono prevedere cosa li aspetta.
Intanto, un mattino pochi giorni dopo il primo brusco risveglio di casa Florio, come per magia, tutti i rari cimeli portati via ricompaiono ai loro posti. Come se niente fosse successo. L’equilibrio è ritornato a regnare tra le pareti del piccolo e autonomo regno palermitano. Ma la storia, per i fratelli Noto, non è ancora chiusa.
5. La pietà negata
Quando Lo Porto e Caruso restituiscono la refurtiva, i fratelli Noto decidono di riunire un summit delle famiglie mafiose della città, che a loro insaputa condanna i due ladri per insubordinazione e ne decreta la pena di morte.
Il 24 ottobre del 1897, attirati con una scusa nel Fondo Laganà, vengono uccisi crivellati di proiettili ad opera di una trentina di mafiosi provenienti da tutte le zone di Palermo. I corpi vengono poi gettati in una grotta e dimenticati.
Le uniche persone che non riescono a dimenticare quegli uomini sono le loro consorti, inconsapevolmente vedove. Ridotte alla fame dopo la sparizione dei loro mariti, disperate, succede che la moglie di Lo Porto chiede aiuto alla madre di Ignazio Florio junior, donna Giovanna d’Ondes Trigona, esortandola a essere caritatevole con le loro famiglie che adesso si ritrovavano in grande disgrazia. Donna Giovanna le risponde senza pietà: «Non mi seccate, perché vostro marito era un ladro che veniva a rubare nel mio palazzo insieme a Caruso».
Marco Marino