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27/06/2020 14:40:00

Leggere i sogni impossibili. "La visita" di Marcello Benfante

Nelle settimane successive alla lettura del nuovo libro di Marcello Benfante, «La visita» (Qanat, 2020), continuando a rileggere alcune pagine che mi avevano colpito, spesso mi è tornata in mente una poesia di Primo Levi che si intitola «Alzarsi».

È un testo molto breve, due semplici strofe, in cui Levi prova a descrivere l’impercettibile istante che ad Auschwitz separava il sonno convulso dei prigionieri dal loro risveglio. Un istante scandito da una singola parola, pronunciata dal guardiano con voce piana e sommessa: «Wstawa?», ‘alzarsi’. Prima di farlo, però, prima di ridestarsi, il poeta sottolinea il miracolo inatteso del sogno, un impensabile prodigio nel luogo più oscuro della storia dell’uomo, vissuto come una straordinaria prova di sopravvivenza.

Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve e sommesso
Il comando dell’alba:
                              «Wstawa?»;
E si spezzava in petto il cuore.

Sono diverse le ragioni che mi spingono a legare questi versi all’ultimo lavoro di Benfante. Innanzitutto, «La visita» è il racconto di un lungo risveglio, di un prolungato e fatale alzarsi. L’autore si trova a rimuginare e a indagare sulla misteriosa trama di un sogno da cui si è appena svegliato. E che potremmo riassumere così: durante un dibattito promosso da un movimento che rivendica le istanze di chi è in grado di camminare a testa in giù, Benfante scorge suo zio Mimmo seduto al tavolo dei relatori. Quando lo zio lo raggiunge per salutarlo, lo invita a partire in treno con lui. «La destinazione la sai», gli dice. Qui il sogno s’interrompe, e comincia una sorta di giallo onirico: perché lo zio Mimmo si trovava lì? Dov’era diretto? Perché era sicuro che suo nipote conoscesse già la meta del viaggio?

«Non si capisce un sogno se non quando si ama un essere umano», scrive Pedro Salinas, «lentamente, molto lentamente, e con poca speranza». Ed è questo il metodo che Benfante adotta per ricostruire, anzi per riscrivere il suo sogno, colmarne le lacune e provare a darsi delle risposte: procede lentamente, molto lentamente, non si aspetta di raggiungere una verità. Eppure, tutto le sue pagine sono animate da una salda sicurezza: tracciare un ritratto appassionato dello zio Mimmo che ne delinei il coraggio e i silenzi, la forza d’animo e le reticenze.

Coraggio e reticenza che Mimmo portava con sé, al pari di due luminose piastrine militari, da quando si era rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò e per questo era stato condannato a scontare il suo diniego nei campi di concentramento nazisti. Dopo essere sopravvissuto al più terribile svilimento fisico e psichico, era riuscito a tornare a casa. Ma, come molti altri deportati, sulla sua vita era rimasto impresso un marchio, uno stigma impronunciabile di dolore e infamia, una pena senza colpa che Mimmo sopportò in silenzio, pensando di proteggere la sua famiglia, di evitarle l’orrore che aveva dovuto patire e che continuava a patire in solitudine.

Ebbene, l’orrore della Storia reclama sempre le sue vittime, e sfuggirgli è davvero impossibile. Non voglio in alcun modo dire troppo degli eventi sognati e nello stesso tempo terribilmente terragni a cui Benfante riesce a restituire forma nel suo intimo e preziosissimo memoir familiare. Mi limito a citare, come ulteriore punto di contatto, la seconda strofa della poesia di Primo Levi. Che dà notizia del tanto atteso ritorno a casa dei prigionieri. Il noi che Levi utilizza per coniugare i verbi è un noi che comprende lui, che comprende Mimmo, e tutti gli uomini che morirono e sopravvissero all’Olocausto, e noi che ci fermiamo dinanzi alle loro storie e ne custodiamo la memoria di sogni - o incubi - ormai impossibili.

Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
                              «Wstawa?».

Marco Marino