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30/04/2020 06:00:00

Uno spettro si aggira tra noi: la stupidità

di Gianfranco Perriera 

Dietrich Bonhoeffer era un giovane teologo luterano. Si era chiesto come vivere in nome di Dio senza Dio. Aveva fatto la resistenza contro Hitler. Aveva affermato la necessità del tirannicidio. Era stato fatto prigioniero nel 1943 e messo a morte nel campo di Flossenburg nell’ aprile del ’45. “Pensare in modo responsabile”, aveva scritto, è il primo dovere di un umanità impegnata nella storia per rendere il mondo migliore. E lo era ancora di più in un momento in cui gli uomini avevano “come mai un terreno tanto insicuro sotto i piedi”, in un tempo in cui “la grande mascherata del male ha scompaginato tutti i concetti etici”.

Nei due anni di prigionia Bonhoeffer annotò un diario e scrisse lettere che verranno poi pubblicate in un volume postumo dal titolo Resistenza e resa. Tra le numerose pagine di estrema intensità, ve ne sono alcune dedicate alla stupidità. “Per il bene – scriveva – la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità”. E più pericolosa lo era perché al male è possibile opporsi, persino con la forza. Il male lascia una sensazione interiore di malessere psichico e fisico. “Ma contro la stupidità – continuava – non abbiamo difesa”. La stupidità non sente argomentazioni, non sembra possibile dissuaderla, anzi più si tenta di piegarla più s’incattivisce. La stupidità non teme le contraddizioni, le esibisce con scialo.

La stupidità è blindata da presuntuosa cecità e sordità. Ama far la voce grossa e – fatto ancora più temibile – ama esser succube della voce grossa. “Una cosa è certa – precisava Bonhoeffer – che si tratta essenzialmente di un difetto che interessa non l’intelletto ma l’umanità di una persona”. La stupidità è sostanzialmente una rinuncia grossolana e risentita alla responsabilità e alla libertà interiore. Si precipita in una volontaria spersonalizzazione, tale che più si ostenta vanità, più si mostrano i muscoli, più si è diventati in effetti vuota cassa di risonanza di beceri luoghi comuni ordinati da altri. Parlando a uno stupido “ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui, con lui personalmente, ma con slogan, motti ecc, da cui egli è dominato”. Non dell’intelligere ma dell’humanitas è mancanza la stupidità.
A causa della stupidità si blocca la soggettivazione della persona. Si diventa la cieca concretizzazione di un pregiudizio, con l’aggravante che dall’ostentazione di questo pregiudizio si ricava una sensazione di robusta realizzazione. Si è al riparo da ogni dubbio, si può facilmente additare un colpevole delle proprie lagnanze e si ossequia la ragione del più forte. La stupidità, ci avverte Bonhoeffer, non è quella del grullo marginale e incantato delle fiabe. La stupidità tende a fare mucchio, là dove impazzano le grida del più forte. Avendo offuscato le più generose qualità e curiosità dello spirito, la stupidità si nutre (e alimenta insieme) di insoddisfazione e servilismo. La stupidità è vendicativa, proditoria e servile.

Sono trascorsi settantacinque anni dalla morte di Bonhoeffer - e dunque dalla fine delle efferatezze compiute da nazismo – ma lo spettro della stupidità torna ad affacciarsi con perentorietà. Per fortuna l’occidente, almeno al suo interno, non scatena guerre. Ma da un pezzo giganteggiano rigurgiti nazionalisti e xenofobi, avvampano risentimenti e banalizzazioni. Il terreno sotto i piedi - a cui il covid-19 ha dato gli estremi trivellamenti destabilizzando l’efficacia della scienza, rinchiudendoci nelle tane e amplificando la sperequazione socioeconomica tra gli umani – è ancora più franato. Anni di relativismo spinto sino all'estremo, di egocentrismo volto al godimento compulsivo, di esibizionismo in cerca di riscontro degno delle star e di sfiducia generalizzata, hanno disorientato e forse un po’ incattivito gli umani.

Il paradosso è che proprio la democratizzazione dei mezzi di comunicazione parrebbe aver giovato al dilagare di un’ottusa disumanizzazione. Della televisione Pierre Bourdieu aveva sottolineato la forza di banalizzazione, la genuflessione al mercato, il culto della ipervelocità che sconsiglia la riflessione e predilige invece la battuta ad effetto, lo slogan, la rabbiosa invettiva, il ghigno mefistofelico o lo sguardo truce e intimidatorio mentre qualcun altro parla. I talk show e in particolare quella fiera delle vanità che sono i reality hanno diffuso un egocentrismo bisognoso a tal punto di affetto da poter far fuori il compagno di scena. Con il web, poi, dove l’immaginario pare trionfare senza ostacoli e il fai da te o il di’ la tua sembra dilagare a ritmo vorticoso, dove nulla in effetti si cancella ma dove pure si accumula tanta di quella roba che non val nemmeno la pena provare a ricordare, la libertà di scambio e di desiderio appaiono i vettori di un nuovo paradiso, ma, in effetti, come lo stesso nome suggerisce, si finisce per diventare segmenti ricettori di una rete di cui un ragno, mai pienamente identificabile in un volto individuale, tesse le fila per nutrirsi delle inesauste eccitazioni degli umani. Quel che sembra davvero contare è la velocità di polpastrelli, in un Far West in cui chi spara di più e più velocemente ha più possibilità di imporsi. Fandonie improbabili vorticano insieme a lacerti di verità e nel rumore che sempre più stordisce, gli umani sbracciano, urlano, si dimenano invasi dal rancore di non essere sufficientemente valutati e dalla paura di non essere sufficientemente appetibili. La tecnicizzazione, aveva avvertito Adorno rischia di erodere la coscienza e di render superflua la riflessione. Per ottenere la felicità prescritta – aggiungeva nei Minima Moralia – “il nevrotico beneficato deve bandire anche l’ultimo resto di ragione che rimozione e regressione gli avevano lasciato e […] prender gusto ai film di quart’ordine, ai pranzi cari ma cattivi al French Restaurant, ai compunti drinks e ad un sex sapientemente dosato”- Rispetto a quanto scriveva Adorno, i tempi, mentre per tanti hanno reso la felicità assai più che un miraggio, hanno acconsentito a godimenti ben più pantagruelici e scafati.

Alla stupidità – intesa come monstrum di arroganza inumana, che nella spettrale trasparenza dei nostri schermi abita – Bonhoeffer, in tempi davvero bui e feroci si oppose nell’azione e nell’invito al pensiero responsabile. Oggi il monstrum non è ancora, almeno a queste latitudini, altrettanto efferato. Eppure aleggia sempre più disinvolto. Bonhoeffer concludeva il suo breve argomentare scrivendo che “tutto dipenderà dall’atteggiamento di coloro che detengono il potere; se essi ripongono le loro aspettative più nella stupidità o più nell’autonomia interiore e nell’intelligenza degli uomini”. Pur se scrivo mentre il virus assassino toglie a noi occidentali ogni presunzione di privilegio, si può affermare comunque che la nostra condizione non è quella di Bonhoeffer. E allora possiamo rileggere l’affermazione del teologo luterano dicendo che tutto dipenderà dall’a chi gli umani sapranno affidare il diritto di governarli: se a quelli che confidano nella stupidità o a quelli che confidano invece sull’autonomia e sull’intelligenza degli uomini.