di Giacomo Laudicina
Curria? E comu curria ravanti a curria chi me patri ‘mmanu avia.
L’avevo combinata grossa quella mattina di fine marzo del 1968.
Frequentavo la quinta elementare. Le lezioni erano riprese da pochi giorni dopo che, dal quindici gennaio, erano state interrotte per il terremoto che aveva colpito i paesi della Valle del Belice.
La maestra La Mantia aveva tenuto una lezione sugli insetti e dato l’incarico, ad alcuni di noi, di catturare delle farfalle ed altri insetti per poterli osservare e studiare da vicino.
Vivi o morti. Allora la cultura ambientalista era ancora “da venire”.
Le lezioni iniziavano di solito alle 8,30, però essendo la nostra scuola situata in una contrada dell’agro marsalese distante una decina di km dal centro, con le strade allora solo in parte asfaltate, piene di buche tanto grosse che certune inghiottivano materialmente la Bianchina delle tre maestre (la stessa auto del famoso Rag. Fantozzi), l’ora di inizio delle lezioni era alquanto aleatoria.
Il più delle volte le maestre arrivavano “intorno” alle 9,00, quando portavano un “leggero” ritardo si eran fatte le 10,00.
Certe giornate non venivano affatto; perchè se si assentava una, le altre, a volte per solidarietà, si assentavano pure.
Era un’assenza di massa al contrario!
Le lezioni finivano con uno scampanio prolungato, ogni giorno categoricamente alle 12 e trenta.
Perché “scampanio prolungato” e non suono della campanella? Si, perché la nostra campanella era un campanaccio di vacca agitato dalla bidella, a Zi Annita.
L’edificio scolastico era composto di tre aule, in una vi era ubicata la “materna”, una ospitava i bambini di prima e seconda elementare, mentre quelli di terza, quarta e quinta elementare erano allocati nella ultima aula.
Mettere insieme alunni di diverse classi, in verticale, potrebbe essere una soluzione da suggerire all’attuale ministro della P.I. Ricordo che i bambini che erano stati promossi con qualche difficoltà alla classe successiva potevano seguire e riprendere i programmi dell’anno precedente. Di contro quelli più capaci potevano seguire le lezioni della classe avanti e precorrere così i tempi.
Sarebbe un’ipotesi vantaggiosa!!
Era una splendida mattina di fine marzo.
Il sole, già alto, rendeva luminosa la campagna circostante e permeava ogni cosa del suo calore, la primavera era esplosa in tutta la sua bellezza: i prati, una moltitudine di colori; gli odori, piacevoli, tenui o forti, di fiori, di erba, di terra; i canti degli uccelli in amore, l’aleggiare leggero delle farfalle, il ronzio fugace e incessante di una miriade di variegati insetti.
Il tutto metteva allegria, voglia di correre tra i prati, di rincorrerci, di schiamazzare, di giocare.
Nelle vicinanze della scuola vi era una spianata che veniva utilizzata per la trebbiatura del grano, luogo denominato per l’appunto - U postu a trebbia - il luogo della trebbiatura.
A quel tempo si usava mietere il grano in massima parte con le mietitrici e portarlo alla trebbiatura. Quel poco ancora mietuto a mano si fasciava con le liane di – zabbara - agave.
Non che non esistessero le mietitrebbie, ma i contadini delle nostre parti sono stati sempre un pò restii verso le innovazioni; vi era la credenza, a ragione forse, che con la trebbiatura mobile una parte del grano andava dispersa per terra. Di lì a qualche anno, le falci, la mietitura manuale, la trebbiatura a posto fisso, gli uomini, con la faccia annerita dal sole, intrisi di sudore, di polvere, di fatica, sarebbero stati solo un ricordo.
Terminate le operazioni di trebbiatura rimaneva nu postu a trebbia un cumulo alto diversi metri di pagliuzze sminuzzate delle spighe di grano, inservibili per altri usi.
Quel cumulo di paglia frantumata (a muntagna i pagghia) era per noi una giostra.
Un divertimento arrampicarci in cima e - catummuliarisi di sutta - facendo le capriole sino alla base.
Durante la stagione invernale, per il vento e la piogga, quel cumulo si appiattiva notevolmente.
In primavera veniva utilizzato per la cova da una specie di grossa vespa (Scolia flavifrons), simile al più temuto calabrone “cattuppulo”, solo che di colore nero e con le stesse macchie gialle sulla parte superiore dell’addome, in dialetto marsalese chiamato busi-busi. La femmina, dotata di pungiglione velenoso, era riconoscibile per le quattro macchie gialle sull’addome e la testa gialla, i maschi, più piccoli e non velenosi, ne avevano solo due e con la testa nera.
Noi a quel tempo invertivamo i sessi, quelli più grossi e con quattro macchie gialle e velenosi, credevamo fossero i maschi.
Anche per i busi-busi era la stagione degli amori. Il cumulo di paglia era un brulicare di busi-busi e non appena un maschio riusciva a catturare una femmina nei pressi del nido, la coppia veniva assalita da altri maschi in una sorta di amplesso allargato.
Memori di quanto ci aveva detto la meastra decidemmo di catturare alcuni busi-busi per poterli poi osservare e studiare da vicino.
Avevamo una tecnica di cattura che avevamo appreso dai ragazzi più grandi e che, secondo me, si tramandava da generazioni.
Pigghiare busi-busi era per noi un gioco.
L’unica difficoltà stava nel catturare una femmina, in quanto velenosa, legarla con un nodo scorsoio ad un filo di ina (avena selvatica, avena fatua).
Quella mattina ci riuscimmo!
Riempimmo una bottiglia di vetro da un litro piena piena di busi-busi maschi.
A guisa di tappo utilizzammo delle foglie di erba.
Con una breve corsa fummo tutti nei pressi della scuola; dopo pochi minuti la Bianchina varcò il cancello dello spiazzale della scuola.
Quella mattina dalla Bianchina non scese la maestra La Mantia, ma una supplente.
A Zi Annita non appena la vide scendere dall’auto, rivolgendosi a noi, pronunciò la frase: “cu è sta ciucia chi vola?”. Ci mettemmo tutti a ridere; aveva trovato “a ‘ngiuria“, il soprannome per la nuova maestra: a maestra ciucia chi vola.
Era al primo incarico, esile, dallo sguardo timido e per di più con una balbuzie accentuata.
Entrammo in classe. Dopo un “Bu-bu-buongiorno” che suscitò una certa ilare rumorosità, iniziò a chiamare l’appello.
“Angi-ngi-ngileri Giu-giu-se-seppe”
“Pre-pre-presente”, rispose Peppe che balbuziente non era.
Scoppiò il finimondo, chi rideva, chi faceva versi e versacci, chi si fingeva balbuziente; “il disordine regnava sovrano”.
La maestra poverina, paonazza in viso, con gli occhi lucidi, ci guardava immobile e non riusciva a proferir parola, uscì di corsa dall’aula lasciando la porta spalancata e dopo pochi secondi vedemmo che ritornava con la collega di prima e seconda, la maestra Marino. Quando entrarono in aula “l’ordine regnava sovrano”, il silenzio era da spazio siderale. Tutti noi eravamo stati suoi alunni in prima e seconda. Ne conoscevamo i metodi e quando si arrabbiava ci incuteva terrore. Fece un giro per i banchi, non aprì bocca, si soffermò alcune volte al cospetto di alcuni di noi. Nel momento che si accingeva ad uscire dall’aula il silenzio fu rotto da un rumore indefinito che via via aumentava di intensità, si faceva sempre più nitido e forte e proveniva da sotto la scrivania. La maestra ciucia chi vola, d’istinto, ne aprì il cassetto. In un istante una nuvola di busi-busi l’investì in pieno viso, emise un grido che per lo spavento in parte rimase soffocato in gola, come un rantolo, e cadde svenuta, stecchita, per terra. Scoppio nuovamente il finimondo, i busi-busi invasero l’aula, le compagne strillavano di paura, la maestra Marino che gridava, non sapeva se scappare o dare aiuto alla collega, per il gran vociare erano pure accorse la maestra dell’asilo e a Zi Annita.
Fortuna volle che qualcuno apri le finestre e i busi-busi in pochi minuti guadagnarono l’aria aperta.
In quel momento capì di averla fatta grossa; ero stato io a mettere la bottiglia nel cassetto della scrivania; vallo a spiegare ora che i busi-busi si trovavano li per uno scopo didattico.
La maestra ciucia chi vola non dava segni di vita, la bidella era corsa a prendere dell’acqua. La maestra Marino ripeteva continuamente che bisognava portarla immediatamente all’ospedale a causa delle punture. Quando ritornò a Zi Annita tranquillizzò la maestra dicendo: “Sulu scantata è, sta specie di cattuppulo unn’ave vilenu”
Nel momento in cui la maestra ciucia chi vola rinvenne, la maestra Marino alzò lo sguardo furente verso la fila di noi maschi e nel contempo prese la bacchetta d’olivo che aveva poggiato sulla cattedra. Bacchetta d’olivo chiamata anche in dialetto “pilarino d’olivo”, nel senso che quando colpiva “t’allisciava u pilu”.
Vidi gli sguardi di tutti i miei compagni su di me e la maestra che si avvicinava con fare deciso; in un istante mi arrampicai sul davanzale della finestra e senza difficoltà con un balzo saltai fuori dall’aula, cosa che oltretutto facevo spesso quando “suonava” la campana.
La scuola era perimetrata da un muro alto circa un metro e mezzo e con un orlato largo una quarantina centimetri. Mi andai a sedere sul muro vicino al cancello di entrata prospicente la strada.
“Scinni! …. Ra pezzo di delinquenti. Scinni! ….. Scinni chi ti fazzo a biriri eo! Scinni!”, erano le frasi ricorrenti della maestra Marino che si era dimenticata della lingua italiana e che mi rincorreva con il pilarino alzato lungo il muro seguita da tutti i miei compagni vocianti e dalla Zi Annita che ovviamente ci metteva pure la sua.
“Birbanti, scinni! … Zuccu torto! … Pezzu di ribelle, scinni! …ora chiamamu a to patri!” queste le frasi ricorrenti della Zi Annita.
Non ci fu bisogno di chiamare mio padre! Caso volle, si trovò a passare da lì in auto e mi aveva visto sul muro che discutevo animatamente con la maestra. Me ne accorsi quando stava scendendo dall’auto.
Se fino a quel momento avevo mostrato una certa spavalderia sicuro di potere spiegare il fatto alla maestra, di colpo mi salì un groppo in gola.
“Chi cumminasti” furono le prime parole di mio padre che si era fermato all’esterno del muro della scuola.
La scena era tragicomica. Io sul muro; tutte le maestre, la Zi Annita, tutti i bambini, quelli di prima e seconda, della mia classe e anche quelli dell’asilo, che mi venivano dietro dall’interno dell’atrio della scuola; all’esterno mio padre che avanzava pure verso di me e io che indietreggiavo lungo il muro e che cercavo di spiegare il fatto, ma le mie parole erano sovrastate da una ridda di voci, accusatorie delle maestre, stridule e acute della Zi Annita, di difesa dei miei compagni maschi, altamente rumorose quelle degli altri.
Vista la situazione, considerato che mio padre si era nel frattempo sfilato la curria dei pantaloni, saltai giù dal muro e mi avviai di corsa verso casa per le viuzze della contrada, evitando di prendere la strada che poteva fare mio padre con l’auto.
Andai a casa di Nonna Giovannina, la nonna paterna, per evitare le reprimenda di mia madre e sicuro che la nonna avrebbe preso le mie difese.
“Stasira ‘ncasa facemu i cunti” disse mio padre, non scendendo dall’auto, dopo che si era sincerato che ero a casa della nonna.
“Cuntami tutti cosi, …. pi filu e pi signu” disse mia nonna. Spiegai tutto; alla fine, sorridendo dell’accaduto, mi rassicurò dicendo che avrebbe parlato lei con papà.
Rimasi tutto il giorno a casa della nonna. Seppi dopo che mio padre era andato a parlare con le maestre ed anche con i miei compagni. A cena volle, pur sapendoli, raccontati i fatti, pi filu e pi signu. Mi accorsi da subito che aveva segni di intesa con la nonna e che a volte si sforzava di non sorridere. Alla fine mi disse solamente di non combinare più marachelle del genere.
Quella volta, sia scantu, sia nenti, finì così!
Non finì così invece in un'altra occasione che, giustu, giustu pi malu distinu, incrociai mio padre per strada quando invece dovevo essere a scuola.