Oggi sulle pagine di Tp24 raccontiamo la storia della cattura di uno dei boss più potenti della mafia trapanese, lo storico capo mandamento di Mazara del Vallo, Mariano Agate, morto nell’aprile del 2013 e vero punto di riferimento nel trapanese del capo di cosa nostra Totò Riina. Lo faremo seguendo il racconto di chi, in prima persona lo ha arrestato, il generale dei carabinieri Nicolò Gebbia. Prima però vediamo chi era Mariano Agate.
Nato nel 1939, è stato condannato all'ergastolo come uno dei mandanti della strage di Capaci. Nel 1985 è stato condannato per sette omicidi, tra cui quelli del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto e del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari. Per quest'ultimo omicidio fu assolto in Cassazione nel 1993.
"Ciaccinu arrivau a stazione". Fu questa che la frase detta un giorno del novembre 1982 passeggiando per i corridoi del carcere di Trapani, che fu ’annuncio che era stato deciso di uccidere Ciaccio Montalto. “Dici a chiddu vistutu di bianco e ca varva che la finisce di rire minchiate” disse invece un giorno del 1988 ad un operatore tv che lo stava filmando durante un processo a Trapani. Il riferimento era a Mauro Rostagno, allora giornalista a Rtc. Punto di riferimento delle cosche in provincia di Trapani, ha gestito a lungo traffici di droga in collaborazione con i narcotrafficanti colombiani e con la 'ndrangheta e il suo nome è stato citato nelle principali indagini su Cosa nostra.
Mariano Agate risultò iscritto alla loggia massonica Iside 2 di Trapani. Considerato uno degli uomini di riferimento di Totò Riina, nel 2004, nonostante si trovasse già in regime di carcere duro, è stato coinvolto in un'indagine per aver fatto arrivare ordini al figlio Epifanio. Dagli stessi colloqui tra i due Agate, si evinceva inoltre, come il padre rispettando le gerarchie di "cosa nostra", spingesse il figlio a dare comunicazione di ogni rilevante novità inerente i traffici illeciti in questione, al massimo esponente della stessa compagine mafiosa, e cioè al pericolosissimo latitante Matteo Messina Denaro, capo indiscusso di "cosa nostra" in provincia di Trapani. A proposito, come ha lasciato scritto un pentito tra le pagine delle sue confessioni, se Agate fosse stato libero, a lui e non a Matteo Messina Denaro toccava il comando della potente mafia trapanese. Qui il racconto dell'arresto di Agate fatto da Gebbia sul blog themisemetis:
L'uccisione del sindaco Vito Lipari e gli arresti - "Mariano Agate fui proprio io ad arrestarlo, per l’ultima volta, nel 1982, e da allora è uscito di galera solo per andare a morire fra le braccia di sua moglie. L’arresto precedente risaliva al giorno prima del mio arrivo a Marsala, quel 13 agosto 1980 in cui, poche ore prima, era stato ucciso Vito Lipari, sindaco di Castelvetrano. Il Radiomobile di Marsala ebbe ordine di attuare il piano provinciale dei posti di blocco, ma il luogo in cui avrebbe dovuto essercene uno, a sud di Marsala, in quei giorni era oggetto di ingenti lavori stradali. Fu così che il capo equipaggio, con spirito d’iniziativa, si spostò un po’ più a sud, dove confluiva sulla statale una comunale che, se percorsa tutta, avrebbe condotto, sempre lungo itinerari minori ed alternativi, al punto in cui il sindaco aveva perso la vita. La prima macchina che fu fermata era una grossa Renault, 3000 di cilindrata, a bordo della quale viaggiavano Nitto Santapaola, Francesco Mangion e Rosario Romeo, provenienti da Catania, insieme con Mariano Agate. Il pretore di Mazara del Vallo, Umberto De Augustinis, decise di arrestarli tutti e furono rinchiusi nel carcere di Marsala.
Tutti scarcerati - Agate, sottoposto alla sorveglianza speciale, andava in giro con la patente di guida del fratello. Per questo reato il presidente della corte penale di Marsala, tanto amico di Sciascia che quest’ultimo coniò il termine di “professionisti dell’antimafia” proprio quando Paolo Borsellino gli fu preferito come Procuratore, accettò per buona la tesi che erano stati i figli dei fratelli Agate a scambiare per gioco i documenti dei loro genitori, che furono assolti, mentre il magistrato diceva ai bambini:”Non lo fate più”.
L'assoluzione per Santapaola e Agate e la confessione di Sinacori - Da Catania, poi, giunsero importanti miei colleghi per sollecitare la scarcerazione di Santapaola, asseritamente loro prezioso confidente. Infine l’ufficiale mandato a controllare l’alibi dei catanesi, positivi al guanto di paraffina perché il giorno prima erano stati a caccia in riserva con un magistrato del luogo, riscontrò la veridicità di tutto ciò e, contemporaneamente, permuto’ la sua 131 Mirafiori con la Renault utilizzata da Santapaola ed Agate al momento dell’arresto. Toccò a me andarlo ad arrestare a Messina anni dopo, ma, comunque, alla fine e’ stato assolto, così come lo stesso Agate, con sentenza passata in giudicato. L’anno scorso il pentito Vincenzo Sinacori (da me arrestato il 7 marzo del 1981, dopo uno sbarco di droga a Torretta Granitola) ha dichiarato di essere lui il killer di Vito Lipari e di aver agito per ordine dei corleonesi. È evidente per chiunque conosca uomini e fatti, che, se le cose stanno davvero così, Sinacori non poteva che aver eseguito un ordine dell’Agate.
La soffiata sull'ordine di cattura - E fu proprio in forza di un provvedimento restrittivo firmato da Falcone per traffico di stupefacenti che catturai definitivamente l’Agate nell’ ’82, sul tetto di casa sua. Ve lo racconto perché troppi stronzi se ne sono attribuiti il merito, che non è, certo, tutto mio. Mariano Agate aveva saputo dell’ordine di cattura prima ancora che Giovanni Falcone lo firmasse e si era dato alla volontaria latitanza, ma non aveva fatto i conti con il PIANO K, escogitato dal generale Siracusano (P2). Egli comandava da Napoli tutta l’Arma del meridione e dispose che, in occasione di omicidi, i carabinieri effettuassero delle perquisizioni ai sensi dell’art. 41 TULPS presso le abitazioni e pertinenze dei principali delinquenti locali.
L'omicidio di un armatore - L’ucciso in quella circostanza resuscito’. Di professione armatore, con piccoli precedenti, aspettava in macchina il ritorno in porto di uno dei suoi pescherecci. Pioveva, erano da poco calate le tenebre e lui dormicchiava con la testa appoggiata al finestrino. L’ ignoto killer esplose un colpo di pistola che gli entrò in testa dalla nuca, la attraversò tutta e fuoriusci’ dal lato destro della mandibola. Dette l’allarme un suo collaboratore, che fu subito portato in Commissariato dove raggiunsi il funzionario di polizia insieme con Pietro Noto e Carmelo Canale, i miei bracci destro e sinistro.
Prima di partire da Marsala, però, per telefono ordinai al comandante della stazione di Mazara del Vallo, l’efficientissimo maresciallo Ditta, di farmi trovare pronto l’elenco delle perquisizioni da effettuare ai sensi del PIANO K. Ed infatti mi fermai presso la caserma di Mazara, che veniva di strada, e detti un’occhiata all’elenco approntato da Ditta.
Obiettivo Agate - Al primo posto figurava l’abitazione della famiglia Agate. Mentre in Commissariato, unitamente anche al pretore Salvatore Di Vitale, io ed il dirigente di polizia facevamo il punto della situazione e, contemporaneamente Noto e Canale stringevano le palle a quel signore che era sopraggiunto un attimo dopo lo sparo (palesemente più informato dei fatti di quanto volesse ammettere), si diffuse la voce di una sparatoria in corso sotto la casa di Mariano Agate. Quando arrivai sul luogo ci trovai una situazione che aveva dell’inverosimile. Il personale in borghese del Reparto Operativo di Trapani, capeggiato dal maresciallo Santomauro, dopo aver suonato al videocitofono di casa Agate, che si era comunque acceso, non aveva ottenuto risposta alcuna. Qualcuno, però, alzando la testa, aveva visto che c’era una sagoma muoversi veloce lungo il cornicione del tetto, esplodendole contro tutti e quindici i colpi del caricatore.
Il resto degli uomini provenienti da Trapani avevano allora guadagnato il tetto del palazzo limitrofo, consistente in un piccolo prendisole di pianta quadrata, elevato di circa tre metri rispetto al tetto di casa Agate, da cui era separato solo attraverso un enorme lucernario.
I fari portatili lo mostravano deserto, ma c’era un angolo morto inesplorato.
Capii che l’unico modo per farlo era salire sul tetto di una casa che stava affiancata alle prime due, alla quale si accedeva da un portone situato nella strada parallela. Scesi giù, mi presi un carabiniere in uniforme del mio Nucleo Radiomobile ed andai a bussare.
Sollecitamente i giovani coniugi che occupavano quell’abitazione mi aprirono e ci condussero sulla loro terrazza, due metri e mezzo più in basso di quel tetto con lucernario che vi ho descritto. Con la scala che mi procurarono, salendovi in cima, riuscii a poggiare le mani all’altezza del lucernario, ma non ad elevarmi con il resto del corpo.
Allora scesi giù, privai il carabiniere che mi accompagnava del suo faro e della mitraglietta, che mi infilai entrambi a tracollo. Poi gli dissi di salire in cima alla scala e, dopo di lui, mi elevai su di essa anche io, fino a quando non ebbi la testa all’altezza del culo del carabiniere.
Gli dissi allora di salire coi piedi sulle mie spalle e quando, grazie a questa ulteriore elevazione, riuscì finalmente a raggiungere il bordo del lucernario con tutto il corpo, gli porsi prima la mitraglietta e poi il faro. Pochi attimi dopo che lo ebbe acceso gli sentii dire: “Fermo là o ti sparo”.
L'arresto di Agate sul lucernario di casa - Mariano Agate stava disteso sul lucernario proprio nell’angolo morto che i solerti trapanesi non potevano esplorare. Fu invitato a strisciare con circospezione fino al solarium dove lo attendevano i trapanesi che, resi coraggiosi dalla mitraglietta spianata dal mio carabiniere, finalmente si calarono fino alla sua altezza e lo sollevarono al piano del solarium. Pioveva a dirotto e, quando scesi per strada, ci trovai il pretore Di Vitale che impugnava una grossa rivoltella e si proteggeva dalla pioggia, insieme col dirigente del Commissariato, sotto un ombrello sorretto da Canale.
Seppi da loro che Pietro Noto era rimasto in Commissariato perché c’erano buone probabilità che il testimone si trasformasse in assassino.
In quel momento fui attirato dalle urla del maresciallo Ditta, che stava rimproverando i trapanesi, intenti a far scendere le scale a calci a Mariano Agate, peraltro disarmato.
Ecco, quei calci sono per me esattamente l’equivalente del “PEZZO DI MERDA” coraggiosamente vergato dal Giacalone dopo la morte di chi, anche dal carcere, avrebbe avuto il potere di farglielo rimangiare. Nel frattempo i trapanesi avevano infilato l’Agate su una delle loro macchine per raggiungere il Comandante Provinciale, l’esimio tenente colonnello Mirone, che stava solo nell’ufficio del maresciallo Ditta fumando una sigaretta dietro l’altra. Quando arrivai io, dieci minuti dopo, stavano tutti montando sulle loro macchine, intenti a rapire Mariano Agate, dopo avere compilato uno sbrigativo verbale d’arresto, che firmarono solo loro ed il Mirone.
Negli anni successivi credo che siano abortite varie proposte di encomio solenne per quella cattura, perché non fu trovato l’accordo sui nomi da proporre. C’era anche un altro problema: all’epoca, così come è successo per la cattura di Totò Riina, il Comando Generale non partoriva l’encomio se non c’era “rischio patito”, e siccome sia Riina che Agate erano disarmati non fu possibile dimostrare il contrario. Da Trapani furono effettuate, nei giorni successivi, minuziosissime perquisizioni a casa Agate e sul lucernario, ma sapevano che mi sarei opposto al miracolo di una pistola provvidenzialmente rinvenuta. In più il brigadiere Cannas cominciò ad insinuare che la reazione indignata di Ditta per le percosse gratuite all’Agate dimostrava che egli lo aveva protetto durante la sua latitanza. Mi ribellai fieramente e tappai la bocca a tutti.
Anni dopo, quando cominciò il calvario di Carmelo Canale per bocca di pentiti in mala fede, gestiti dalla Gestapo di Subranni e Mori, l’attuale amministratore dell’Ospedale Ebraico di Roma, già assessore alla sanità regionale, il magistrato Massimo Russo, malgrado l’ordine di cattura per Agate fosse in carico alla Polizia di Stato, perché partorito da indagini di Ninni Cassara’, tentò di dimostrare processualmente che fosse stato proprio Canale a mettere in guardia l’Agate, consentendogli di darsi alla latitanza prima ancora che il provvedimento fosse spiccato. Canale scelse un difensore che io detesto, Carlo Taormina, e sudai le fatidiche sette camicie per farlo assolvere.