Una strana immagine è apparsa di recente sulle pagine palermitane di un quotidiano: una giovane donna che cavalca la schiena di un vecchio signore barbuto. Lui è ridicolo con quell'aria smarrita da asinello domato. Lei è trionfante in volto, sensuale nella sua lunga veste leggera e attillata. Dall'alto di un palazzo due uomini osservano la scena con meraviglia, e uno dei due punta il dito verso lo sventurato vecchio che arranca con la fanciulla sul groppone. Chi saranno mai quei personaggi? E che senso può avere quella scenetta comica e a dir poco singolare? Due righe di didascalia liquidavano l'immagine con queste parole: “Un particolare degli affreschi di Palazzo Steri”. Si tratta dunque di un mistero?
Ma quando mai. Quella scena – che nella Sala Magna di Palazzo Steri fu raffigurata con ingenuo vigore realistico verso la fine del Trecento da un pittore siciliano, forse Cecco di Naro – si allaccia in realtà a uno dei temi iconografici che ebbero maggior diffusione in varie parti d'Europa a partire dal secolo tredicesimo, sia in pittura, sia nell'arte scultorea. E sia in ambito profano, sia in quello sacro, per le ragioni che presto vedremo. Il suo significato si collega a un'antichissima leggenda che dall'India si era trasmessa alla Persia e al mondo arabo islamico intorno all'anno Mille, per poi approdare nell'Europa cristiana nel dodicesimo secolo, e assumere infine nel 1230 le forme di un poemetto per opera dello scrittore francese Henri d'Andeli.
Il poemetto s'intitola Le Lai d'Aristote (Il Canto di Aristotele). E il suo successo fu enorme, e per un semplice motivo. L'autore ebbe la furbizia di trasformare la storiella orientale, mescolandola con elementi tratti dalla leggenda ellenistica di Alessandro Magno, e identificando la figura del vecchio cavalcato dalla giovane donna con quella di Aristotele, ossia proprio del filosofo che nel secolo tredicesimo rappresentava per tutti il simbolo massimo della sapienza e del rigore etico e razionale. Il Filosofo per eccellenza. Il grande Maestro di tutti i pensatori islamici, ebrei e cristiani, da Averroè fino a Maimonide e a Tommaso d'Aquino.
Et voila! Il gioco era fatto. Il Canto di Aristotele narrava dunque che alla corte di Alessandro viveva una splendida fanciulla, di nome Fillide, di cui il re macedone era perdutamente innamorato. Il severissimo Aristotele, che di Alessandro era il precettore, non perdeva occasione per rimbrottare il suo allievo per quella follia d'amore, e tanto s'infervorò nel dissuaderlo che un giorno Fillide, esasperata da quella tormentosa intromissione, escogitò un piano per punire il filosofo moralista e bacchettone. Con un abile trucco seduttivo, mostrandosi alquanto discinta a passeggio in un giardino, attrasse il suo sguardo ed eccitò in lui la forza incoercibile della libidine, al punto che il vecchio filosofo, un giorno, la implorò di concedersi a lui.
E loco te voglio! come dicono a Napoli. La perfida Fillide – che intanto già se la spassava in quell'inganno, ben d'accordo col suo amato Alessandro – disse ad Aristotele: “Va bene, io sarò tua, ma a patto che tu soddisfi un mio capriccio, e almeno una volta ti lasci cavalcare da me come un umile ciucciariello”. E il gran filosofo abboccò. Con tutto il suo rigore etico e razionale, con tutta la sua gran barba da vecchio fustigatore delle smodate passioni, lo sventurato rispose all'appello bruciante dei sensi, e cascò subito come un pollo nelle grinfie dell'astuta fanciulla. Prestandosi a farle da cavalluccio, mentre Alessandro osservava la scena sbellicandosi dalle risate.
Fin qui la leggenda. Ma come interpretarne il significato? Il primo modo è quello di seguire alla lettera la morale che lo stesso Henri d'Andeli trae dal suo exemplum: la forza dell'amore è invincibile, e dunque la passione non può essere condannata, ma solo elogiata per le gioie naturali che ci può dare. E chiunque cerchi di opporvisi non può far altro che cadere nel ridicolo. Insomma: viva la natura e viva l'amore! Ecco il messaggio che la cultura laica francese di quel secolo lancia al mondo, e che ben presto troverà piena e clamorosa espressione nel Romanzo della Rosa di Jean de Meun. In barba al fanatismo religioso dominante, con tutta la sua ipocrisia.
Ma già, ecco che allora la religione cerca subito di difendersi da quell'attacco, e di riprendersi i suoi diritti. E con un'altra bella furbata intellettuale trasforma la leggenda dell'Aristotele cavalcato in un fantastico apologo morale: la ridicola gogna del filosofo-asino diventa il simbolo dell'umiliazione che la ragione umana subisce quando si lascia soggiogare dalle passioni materiali. Così la favoletta s'iscrive nel registro degli esempi morali, e si guadagna il diritto di essere raffigurata perfino nelle chiese, come vediamo ad esempio tra le sculture che adornano la facciata della cattedrale gotica di Saint-Jean a Lione.
Incredibile fortuna di una “bufala” nata in India migliaia di anni fa! Fortuna che potrebbe avere anche oggi nuovi sviluppi e nuove interpretazioni, volendo. Pensate per esempio a Fillide come alla “voce della pancia” che prende il sopravvento sulla voce della ragione. Ed ecco la cortigiana di Alessandro Magno trasformarsi per incanto nella sirena ideologica del populismo trionfante: la voce delle paure, delle passioni fanatiche e di tutte le “matte bestialità” di cui è sempre capace il genere umano.
Vale la pena di compiere una visitina a Palazzo Steri. O no?
Selinos