di Marcello Benfante
Temo ci sia un inquietante equivoco di fondo nelle ridondanti celebrazioni per il trentennale della morte di Leonardo Sciascia.
Il sospetto di un fraintendimento si è fatto strada nella mia percezione (e spero di altri) un po’ alla volta in mezzo a una selva di dichiarazioni talora anche condivisibili e sacrosante, che però stridevano coi fatti, con le persone, con le circostanze.
Come se le parole avessero orwellianamente mutato il loro senso originario e assunto, combinandosi in discorsi e manifestazioni, valenze divergenti da quelle originarie.
“Quelli che la pensano come noi appunto sono quelli che non la pensano come noi”, scriveva Leonardo Sciascia in «Nero su nero».
Trent’anni, a conti fatti, sono una distanza sufficiente pure a smorzare ogni polemica, a disattivare ogni dissenso, a disarmare ogni conflitto. Una distanza di sicurezza, di impunità. E in qualche modo di un oblio che si nasconde tra le pieghe di un’esibita rimembranza citatoria e retorica.
Una distanza dalla quale si possono perfino concedere ai morti le loro remote ragioni nella certezza che anch’esse sono divenute lettera morta e, trasformandosi da laica profezia in cronaca e storia, hanno perso il loro carattere scandaloso e provocatorio.
Una serie di iniziative editoriali, accademiche, giornalistiche (anche doverose e a volte perfino encomiabili) sta infatti delineando sempre più chiaramente una sorta di ridimensionamento e di ricollocazione della figura intellettuale e autorale di Sciascia.
Si tratta di un tentativo, più o meno consapevole a seconda dei casi, di assimilare Sciascia a un panorama generico del secondo Novecento letterario, dopo avere appiattito l’uno e l’altro, e in qualche modo di omologarlo, e precisamente nell’accezione che il termine ha assunto con Pasolini.
Un tentativo, insomma, di rimodulare Sciascia, di bonificare il suo campo minato affinché non vi si potessero verificare esplosioni dirompenti; di appianarlo, livellarlo, smussarlo, affinché nessuna delle sue asperità potesse ferire o risultare un ostacolo nel processo di archiviazione enciclopedica.
La diversità di Sciascia è stata in tal modo inglobata, metabolizzata, annullata tra la soddisfazione pressoché generale. Almeno nelle intenzioni, destinate comunque all’insuccesso nel lungo periodo, ché il corpus dell’opera sciasciana resta tuttavia a testimoniare il disguido con la sua inequivocabile trasparenza.
Reso accettabile (per quanto possibile) tanto all’industria culturale che all’establishment universitario e quasi riconvertito al ruolo postumo di autorevole garante delle loro derive più commerciali e rasserenanti, Sciascia appare in questa kermesse commemorativa (in cui naturalmente non sono mancate eccezioni illuminanti) come un Sansone dal barbiere o un Anteo sospeso a mezz’aria, privato della sua forza e della sua carica innovativa e anticonformista.
La sua stessa eresia, esplicitamente dichiarata e sventolata come un vessillo, sembra così ridotta all’ortodossia italianissima di una innocua equidistanza dai poteri, dagli schieramenti, dai valori stessi (il che è davvero un paradosso inaccettabile per uno scrittore moralista, sulla scia di Pascal e di Montaigne, come Sciascia).
Ciò che rimane di Sciascia, al netto di un tributo quasi unanime, dopo questa equivoca traslazione, è una singolarità resa inoffensiva, una problematicità disinnescata, una conflittualità attutita e riconciliata.
È una complessa strategia di banalizzazione, quella messa in atto nei confronti di Sciascia. Come scrittore troppo spesso lo si intruppa sbrigativamente tra i giallisti (sebbene sui generis), facendone una specie di precursore di Camilleri e di certo etnoturismo pubblicitario. Come opinionista lo si pone in una rassicurante posizione intermedia fra destra a sinistra, insediandolo arbitrariamente in un centro ideale e quasi super partes della dialettica politica. Come rappresentante di un’atavica sicilitudine (ancorché distorta e malintesa) lo si confina nell’ambito di una dimensione regionale, isolata e marginale, dimenticando che forse fu l’ultimo intellettuale europeo ad avere con la sola forza del suo pensiero e della sua scrittura un peso e un’incidenza internazionali.
Sicché il suo antagonismo estremo e la sua diversità irriducibile risultano infine depotenziati e snaturati.
A ciascuno il suo Sciascia, si dice, con una facile battuta. Come se fosse possibile farne un Don Chisciotte buono per tutti gli usi. E ciascuno vorrebbe accaparrarselo esclusivamente per sé e contro gli altri, con appropriazioni indebite (e simmetriche e arbitrarie esclusioni) o alquanto discutibili rivendicazioni di campanile e di parrocchia, di cattedra o di fazione.
È una clamorosa, ancorché subdola e strisciante, operazione di depistaggio, di stravolgimento, di mistificazione, fatta di luoghi comuni pittoreschi e ambigue approssimazioni. O, nei casi peggiori, di tendenziose revisioni, di qui pro quo recidivi e maliziosi, come le annose e sterili polemiche sulla sicilutudine, l’irredimibilità, la presunta mafiologia, i professionisti dell’antimafia, il pessimismo e così via.
Polemiche alla cui base spesso c’è un’incomprensione e talora perfino un’ignoranza sostanziale dell’opera di Sciascia, che viene frequentemente e riduttivamente sussunta nei termini più generici e grossolani.
Bisognerebbe allora tornare a leggerlo, Sciascia. Rileggerlo (ripensando a quel suo delizioso saggetto borgesiano sul rileggere) possibilmente tutto, e in modo critico e storico. Con rispetto e attenzione per la sua parola, per il suo pensiero, per il testo e il contesto.
E quindi ritornare a Sciascia. Alla sua voce. All’attualità del suo magistero, pur senza pedissequi e vuoti omaggi. Ancora e ancora. Ovviamente per superarlo. Andare oltre o perfino altrove. Magari salendo sulle sue spalle per essere più lungimiranti e sembrare un po’ più alti. O soltanto un po’ meno miopi e rachitici.