Completiamo oggi la terza ed ultima parte della nostra inchiesta sulla mafia marsalese del passato e in particolare sul suo esponente di maggior spicco, Mariano Licari. (Qui potete leggere la prima parte e qui la seconda).
Per cercare di capire bene l’entità degli affari illeciti che Licari e i suoi uomini intraprendevano, la magistratura dell’epoca cercò di analizzare i tantissimi rapporti bancari che aveva l’esponente della criminalità organizzata che, allo stesso tempo, era azionista di diversi istituti di credito della città.
I rapporti tra Mariano Licari e gli istituti bancari marsalesi - Lo stesso perito nominato dal giudice istruttore del tribunale di Trapani, dottor Giuseppe Cicero, funzionario della Banca d'Italia, pur avendo avuto a disposizione per tre mesi tutta la documentazione sequestrata dall'autorità giudiziaria, riferì nella relazione consegnata al giudice il 19 febbraio 1964 che l'indagine « sulla dinamica dei rapporti nei mesi espressamente indicati dal giudice istruttore » (cioè: settembre 1953; maggio 1960; giugno 1961; marzo 1962; luglio 1962; gennaio 1963; 7 marzo 1963) « non potrà essere esauriente per la mancanza di elementi oggettivi sufficienti ». Assolutamente negativa è, poi, la risposta al quesito propostogli « se i fidi concessi dalle aziende di credito sono stati nel loro importo adeguati alla situazione patrimoniale ed economica di ciascuno dei nominativi onde trattasi », e, a giustificare tale risposta, il dottor Cicero adduce la soggettività dei giudizi, la molteplicità degli elementi da prendere in considerazione e la complessità delle indagini « specialmente per quanto riguarda le ditte a cui risulta direttamente obbligato il signor Mariano Licari (Asaro Antonino e C, società semplice - ditte Licari Mariano e Barbaro Francesco, Licari e Pipitone - Licari e Pellegrino - Licari Mariano B.C.G. - Licari Mariano, Bua Giuseppe, Curatolo Nicolò e Gandolfo Giuseppe ecc.) ».
Primi rapporti bancari - I suoi primi rapporti a carattere continuativo con istituti di credito consistono nell'apertura di un deposito in conto corrente ordinario presso la Banca agricola di credito e risparmio di Marsala (1° maggio 1950). Nel 1947 però egli risulta debitore nei confronti di V. Curatolo per un effetto a 4 mesi per lire 50.000; nell'aprile 1950, nei confronti di G. Marino per un effetto di lire 15.000, probabilmente a 6 mesi, scontato dalla banca stessa e sostituito alla scadenza con altro effetto di lire 10.000 a quattro mesi; il 3 luglio 1950 è debitore nei confronti di D. Curatolo per un effetto a due mesi per lire 30.000. Ciò dimostra che le sue condizioni non dovevano in quel periodo essere floride, anche se non rimasero tali per lungo tempo, a quanto può dedursi dai saldi del conto corrente esistenti alle date indicate dal giudice. II 31 agosto 1950, « mediante storno da un conto corrente ordinario » (forse il precedente) di lire 41.988, viene aperto presso lo stesso istituto un « conto corrente di corrispondenza » intestato a M. Licari ed F. Barbaro. Il 3 settembre 1950 il Licari risulta debitore nei confronti di D. Curatolo per un effetto di lire 20.000 a due mesi; ma il 20 dicembre è in grado di emettere sul suo conto corrente un assegno di lire 100.000 a favore di G. Bua; il 24 ed il 31 gennaio 1951, sul conto corrente con Barbaro emette due assegni a favore di P. Bua per lire 90.000 e per lire 189.950; il 19 febbraio e 6 marzo 1951, sul suo conto corrente personale, due assegni di lire 100.000 a favore di G. Marino e di P. Bua. Non basta: il 26 maggio 1951, disponibilità per ben lire 820.239 passano da questo ad altro conto corrente intestato agli stessi. Tutto ciò dimostra l'eccezionale miglioramento delle condizioni economiche, dato che il primo fido, per un milione di lire, risulta concesso il 31 agosto 1951. Il 5 dicembre il Licari è in grado di emettere sul proprio conto corrente, a favore di P. Bua, un assegno per lire 599.450. Qui sotto uno dei tanti prospetti del saldo di Licari rispetto ai diversi conti correnti che aveva negli istituti bancari marsalesi:
I fidi concessi - Assai utile è invece seguire lo sviluppo dei fidi concessi al Licari dai vari istituti ed esistenti alle date indicate dal giudice istruttore: fine settembre 1953: sul deposito in conto corrente ordinario presso la Banca agricola di credito e risparmio sussisteva un credito di lire 795.965 mentre sul conto corrente Licari e Barbaro esisteva un debito di lire 714.005, con un saldo attivo perciò di lire 81.960; 6 novembre 1954: con un prelevamento di lire 320.000 viene aperto presso la stessa banca un conto Licari e Pipitone, con firma congiunta. Il relativo fido era stato già concesso il 5 ottobre nei limiti di un milione di lire; 18 giugno 1955: il Licari sconta presso la Banca di Marsala un effetto di lire 42.000, accettato da M. Asaro e decurtato quattro volte prima di essere estinto il 20 settembre 1956. Alla stessa banca egli chiede, unitamente a G. Pipitone, un fido di 5 milioni che il consiglio non accetta; 22 marzo 1956: effettua in un libretto personale presso la Banca agricola di credito e risparmio, un deposito di lire 4.100.000, estinto praticamente nel giro di un mese, essendo residuate soltanto lire 3.385 di interessi maturati; 27 marzo 1956: la medesima banca eleva a lire 7.500.000 il fido alla Licari e Pipitone; gennaio 1959: il castelletto ed il fido sono portati rispettivamente a 10 ed a 5 milioni di lire; 24 marzo 1959: è aperto presso la Banca agricola di credito e risparmio un conto corrente Licari Mariano B.C.G. (oltre al titolare: Bua Giuseppe, Curatolo Nicolò e Gandolfo Giuseppe).
L'avanzata delle attività economiche e l'aumento del prestigio in seno alle cosche - Dai suoi primi, sporadici rapporti con gli istituti di credito, nel periodo 1947-1950, si deduce che le condizioni economiche del Licari erano modeste, dal momento che, pur tenendo conto del diverso valore della moneta, egli non era in grado di saldare piccoli debiti. È in questo periodo di tempo che il nucleo Licari-Curatolo-Bua passa gradatamente da uno stato di soggezione, anche patrimoniale, nei confronti della cosca madre, guidata dai Gandolfo, ad una più ampia libertà di movimento, sino a pretendere la ristrutturazione di tutta la gerarchia. La nuova posizione di prestigio, assunta nel 1950, ha per riflesso l'improvviso salto verificatosi nella disponibilità di denaro da parte sua.
L'intermediazione per la vendita del feudo "Bellusa" - Si colloca nello stesso periodo la vendita del feudo "Bellusa" che, come osserva il pubblico ministero nella sua requisitoria del 12 dicembre 1966, « è ben idonea a dare piena contezza della rilevanza di alcune persone, delle caratteristiche dell'ambiente costituente il fondale delle attività criminose in ordine alle quali si è proceduto, nonché dei metodi che sono congeniali alla mafia intesa quale modo di sentire e di vivere ». La vendita del feudo ha costituito una complessa operazione condotta con ogni accorgimento giuridico al fine di evadere le leggi fiscali e quelle sul latifondo e di comporre al tempo stesso una possibile lite giudiziaria fra la mensa vescovile di Mazara del Vallo, erede del cavalier Benedetto Genna, e i nipoti di costui, Giovanni ed Isidoro Spanò. Mediatore, acquirente egli stesso, prestanome, Giuseppe Bua gioca un ruolo non irrilevante in questo negozio che ha permesso di incassare lire 120.000.000 alla mensa vescovile di Mazara del Vallo, lire 250.000.000 ai fratelli Spanò ed oltre lire 30.000.000 ai numerosi collaboratori (esclusi da questi i mediatori ed i tecnici retribuiti, a parte, dagli acquirenti). Ma l'incarico di mediatore fu pure attribuito a Mariano Licari e a questo proposito il pubblico ministero giustamente osserva: « L'intervento del Licari nella vendita del feudo Bellusa è prova del notevole prestigio goduto dal Licari stesso; infatti, sebbene tale vendita non fosse certamente avvenuta nell'ambito della associazione capeggiata da costui e fosse da presumere che, in ogni caso, non sarebbe stata dalla associazione stessa ostacolata, tuttavia persone quale Gioacchino Di Leo, di grande prestigio quanto meno quale vescovo di Romana Chiesa, non omise il conferimento dell'incarico anche al Licari, del quale in tal modo implicitamente riconobbe la rilevanza ».
La vendita di un altro feudo e un'altra speculazione - Nel 1960 la banda Licari scopre un'altra possibilità di speculazione e la realizza muovendosi su due fronti: Mariano Licari, Giuseppe Bua e Nicolò Curatolo promettono di acquistare per la somma di 55 milioni un fondo situato nella contrada Granatello; per la stessa cifra Domenico Curatolo, Nicolò Occhipinti e Nicolò Montalto promettono di acquistare un fondo posto in contrada Fontanabianca. « Entrambi i contratti - specifica la sentenza istruttoria - vennero stipulati con scrittura privata con l'intendimento di rivendere immediatamente i terreni al fine di una chiara ed ovvia speculazione economica. « Ora appare evidente che i promittenti acquirenti Licari, Curatolo e i loro soci fecero sì da trovarsi in condizione di disporre di pregevoli terreni senza sborsare alcuna somma di denaro, anzi di guadagnare cospicue somme di denaro rivendendo i terreni medesimi ancor prima di averli definitivamente acquistati; mentre, d'altra parte, i compratori si trovarono nella condizione di dover consentire ai promittenti acquirenti una evidente speculazione economica ai loro danni... Ora è evidente che il consenso manifestato dai singoli proprietari dei terreni al compimento di simile speculazione non può essere stato libero e spontaneo ».
La testimonianza di Tommasa Napoli, moglie di Vito Sammartano - La posizione di preminenza di Mariano Licari nella cosca mafiosa del marsalese è stata riconosciuta da tutti i testimoni ed è, del resto, desumibile da una serie di rilevanti indizi ed elementi di prova. Particolarmente significativa, in proposito, è la deposizione di Napoli Tommasa, moglie di Vito Sammartano che fu ucciso da elementi della cosca il 14 giugno 1961. Dopo non poche reticenze, determinate dal timore di rappresaglie nei confronti suoi e dei suoi figli, la Napoli si decise a riferire all'autorità giudiziaria quanto in diverse occasioni le aveva comunicato il marito a proposito dell'attività della cosca capeggiata dal Licari: « Ammetto che mio marito capeggiava a Porticella una ghenga... e che era persona intesa; la gente lo interessava per mettere la pace, nel senso che, essendo egli una persona di buon senso e comprensiva, sapeva dirimere le questioni che insorgevano...; a lui le persone si rivolgevano per recuperare refurtive: gli dicevano: " Vitino, mi squagghiau sta cosa; si tu si capaci di farimila capitari, iu ti rispettu "... « Mio marito, ancora prima che fosse divenuto socio dei fratelli La Vela e fino a pochi mesi prima della sua morte, era solito ottenere dal Licari sovvenzioni di importo variante fra le lire 20.000 e le lire 30.000. « Ricordo che egli, allorquando era necessario danaro per le esigenze di famiglia, mi diceva che gli bastava chiederne a " zu Mariano ", per ottenerlo... « Mio marito otteneva tali sovvenzioni perché sapia tanti cosi (sapeva tante cose) commesse dalla associazione capeggiata da Mariano Licari. Fu mio marito dirmi che egli era a conoscenza di tante cose. « Preciso che mio marito mi disse che "u 'zu Mariano manna a ammazzali i genti ". Per questo motivo il Licari aveva soggezione di mio marito, che del resto era informato bene in ordine alla uccisione di Totò Fici e, probabilmente, anche in ordine alla uccisione di Paladino Giuseppe... « Mio marito mi riferì che " u 'zu Mariano " lo aveva avvicinato... e gli aveva fatto un discorso che il predetto mio marito in questi termini mi riferì: " Vitino, tu si cuntento di fare quello che ti dicu iu, di quello che fanno gli altri, di andare a ammazzare con gli altri qualche persona ? ". « Mi disse mio marito che così aveva risposto: " Zu Mariano, di tutto mi deve parlare tranne di questo, non sono una persona io di fare questo. Se vuole accomodare una questione o altro..., ma di questo niente; non sono capace di fare male alle persone " ». Del resto, come si dirà più oltre, la causale immediata dell'omicidio Sammartano così come emerge dalla istruttoria è da ricercare proprio in uno « sgarro » fatto dal Sammartano al Licari per dimostrare la propria indipendenza. Né meno precisi sono i riferimenti di Valenti Giuseppe (che riferisce anche elementi confidatigli dal figlio Biagio il quale « disgraziatamente, faceva parte di quella associazione capeggiata dal Licari Mariano »), di Antonio Lombardo (« come è risaputo in tutta Marsala, il predetto Licari Mariano da anni è a capo delle nuove leve »), di Valenti Nicola e di numerosi altri testimoni, nonché delle stesse informazioni di polizia relative a Mariano Licari.
Gli uomini vicini a Mariano Licari - Accanto a lui, una posizione di notevole prestigio in seno all'associazione a delinquere assumono il genero Pietro Bua, Domenico Di Vita e i fratelli Curatolo: a costoro fa capo una schiera abbastanza fitta di personaggi (non tutti identificati) dediti agli abigeati, ai furti, alle rapine, alle estorsioni, a delitti, in genere, contro il patrimonio. I capi, naturalmente, pretendono in ogni caso di partecipare alla ripartizione degli utili e, anzi, in alcuni casi, decidono addirittura di escludere dalla ripartizione degli utili quelli che dimostrano di non voler sottostare a tali soprusi; decidono, cioè, che il ribelle faccia « il cornuto », partecipando alle azioni delittuose senza ricavarne alcun utile e, nel caso in cui la vittima non voglia sottostare al sopruso, ne deliberano senz'altro la soppressione. I delitti di sangue - solo per alcuni dei quali è stato possibile riaprire il procedimento a seguito delle rivelazioni di Giuseppe Valenti, di Antonino Lombardo e, via via, di altri testimoni - rientrano così tutti in una ferrea determinazione di mantenere, difendere o assestare l'associazione per delinquere.
L’omicidio di Vito Sammartano - Il 14 giugno 1961 muore, crivellato da numerosi colpi di arma da fuoco, Vito Sammartano, pregiudicato mafioso sospettato di essere a capo di una cosca minore dedita a furti e a delitti contro il patrimonio. Le indagini di polizia hanno uno sbocco concreto solo a seguito delle rivelazioni di Giuseppe Valenti: si riesce, infatti, ad accertare che un mese prima del delitto il Sammartano aveva avuto un « ragionamento » con Domenico Di Vita il quale gli aveva richiesto la restituzione di alcuni pneumatici rubati ad una autobotte Shell di Mariano Licari. Il furto è chiaramente uno « sgarro » al capomafia. La sentenza istruttoria ritiene infatti l'omicidio Sammartano un « delitto necessario per la difesa dell'aggregato mafioso e per la salvaguardia del prestigio di Mariano Licari e degli interessi degli altri associati... « Anche se è difficile collocare nel tempo il momento del suo distacco dall'aggregato è, tuttavia, provato che il Sammartano riuscì a sottrarsi all'influenza dell'associazione criminosa, a troncare il rapporto di dipendenza dal Licari assumendo un atteggiamento di autonomia che lo porta a sua volta a capeggiare una " ghenga " (secondo l'espressione di Napoli Tommasa) operante nella zona di Piazza Porticella... « La sua attività, il suo prestigio e la sua posizione di indipendenza, dovettero costituire altrettanti motivi di aperto contrasto con l'associazione capeggiata dal Licari. Si noti inoltre che per i suoi pregressi rapporti di appartenenza all'associazione, il Sammartano era sicuramente a conoscenza di innumerevoli particolari relativi a crimini commessi dalla medesima... « Il tentativo estremo compiuto dal Licari per recuperare il Sammartano all'associazione dovette fallire per il rifiuto deciso opposto dall'interessato. « Ovviamente il suo atteggiamento ulteriore, lesivo del prestigio dell'associazione, e il pericolo che egli, in possesso di conoscenze relative alla vita e alla attività della associazione medesima, costituiva, indussero l'aggregato mafioso a deliberarne la soppressione ».
L’omicidio di Biagio Valenti - Il 4 marzo del 1962 scompare Biagio Valenti, anch'egli membro assai attivo della cosca del Licari e autore, come risultò nel corso delle indagini giudiziarie, di numerosi abigeati, furti, ecc. La causale dell'omicidio appare anche in questo caso quella di difendere il prestigio dell'associazione contro un elemento che aveva assunto atteggiamenti di indipendenza e di aperta ribellione nei confronti degli elementi più qualificati della cosca, che reagiscono in un primo tempo sia imponendogli soprusi nella ripartizione degli utili tratti dagli abigeati e dai furti cui aveva partecipato sia realizzando nei suoi confronti una vera e propria truffa in un episodio relativo allo scioglimento di un rapporto di società con tale Giannola Giuseppe per l'allevamento di un gregge di proprietà comune. Il Valenti non si rassegna però a subire tali affronti: di qui una serie di tentativi per far valere le sue pretese, che si concretano in continue riunioni con alcuni personaggi della cosca in casa di Biagio Valenti, fino a quando la cosca non decide la sua soppressione.
L'omicidio di Luciano Patti - A nove giorni di distanza dalla scomparsa di Biagio Valenti venne ucciso Luciano Patti, suo intimo amico e compagno in numerosi delitti contro il patrimonio, l'unico che poteva conoscere o intuire immediatamente la fine riservata all'amico Biagio, gli autori e il motivo del delitto. Il 13 marzo 1962 Luciano Patti venne pertanto aggredito da ignoti che gli esplosero contro da distanza ravvicinata alcuni colpi di arma da fuoco. Le indagini esperite subito dopo il delitto non dettero però alcun risultato anche per la mostruosa omertà del padre, Antonino, da tempo appartenente alla cosca mafiosa, che si rifiutò di indicare agli ufficiali di polizia giudiziaria anche i nomi degli amici del figlio.
La testimonianza di Antonino Lombardo, vittima di tentato omicidio - Diverso fu invece l'atteggiamento di Antonino Lombardo che il 20 maggio 1962 subì un attentato, rimanendo ferito da un colpo di arma da fuoco: egli premette durante l'interrogatorio che «... ritenendo ogni ulteriore speranza di salvezza impossibile data la pericolosità dei miei aggressori, resomi conto del grave rischio che corre la mia incolumità, anche se tenessi segreti i nomi dei miei aggressori che ho perfettamente riconosciuto, ho deciso di smascherarli e denunziarli alla giustizia... Non è voler fare l'infame, come si suole dire in seno alla malavita, ma è una ragione di vita o di morte che pesa sulla mia persona e maggiore sarebbe il pericolo che mi minaccia nel caso in cui non avessi il coraggio di dire la verità in tutti i suoi particolari ». Il Lombardo fa quindi i nomi degli aggressori, che ha riconosciuto in Domenico Di Vita, Gaspare Barraco, Giuseppe Sammartano e Giuseppe Marino tutti elementi della cosca di Licari. La causale del delitto è da ricercare nella sua ferma opposizione a desistere da una azione giudiziaria che egli aveva iniziato per ottenere il risarcimento dei danni cagionati da ripetuti pascoli abusivi effettuati su terreni di sua proprietà da Pietro Zerilli « uomo d'onore » di Mazara del Vallo. Costui si era rivolto ad influenti personaggi della cosca del Licari che avevano tentato inutilmente, con una serie di « ragionamenti » tipicamente mafiosi, di vincere la resistenza coraggiosa di Antonino Lombardo che non aveva voluto sottostare alle imposizioni mafiose.
L’omicidio di Giuseppe Valenti - L'ultimo atto di violenza è consumato il 20 gennaio contro Giuseppe Valenti. L'omicidio scaturisce questa volta da una assoluta necessità di difesa della sopravvivenza dell'associazione, essendo noto che il Valenti - che in passato con molta probabilità era stato un membro dell'aggregato mafioso e come tale aveva acquisito (anche attraverso il figlio Biagio) una serie di notizie e di conoscenze che lo rendevano assai pericoloso - si era deciso a seguito della scomparsa del figlio a rivelare quanto era a sua conoscenza. « L'omicidio di Valenti Giuseppe - specifica la sentenza - fu quindi per l'associazione criminosa il mezzo necessario per assicurare la propria sopravvivenza e per eliminare il pericolo gravissimo rappresentato dalle conoscenze che un uomo come il Valenti, ormai irrecuperabile all'ambiente e alla mentalità mafiosa a seguito della uccisione del figlio, avrebbe certamente, prima o dopo, portato a conoscenza dell'autorità giudiziaria ». Accade però che il Valenti sopravviva per sei giorni durante i quali chiede più volte di essere interrogato dagli ufficiali di polizia e dall'autorità giudiziaria chiarendo i motivi dell'attentato subito e fornendo precise, dettagliate e attendibili notizie su tutta una serie di delitti verificatisi a Marsala, notizie ed elementi che vengono poi confermati tanto dagli appunti registrati nel suo memoriale, quanto dalle deposizioni di altri testimoni e dalle indagini compiute dall'autorità giudiziaria.
La sentenza di condanna per Mariano Licari e i suoi uomini - Davanti alla corte di assise di Salerno, la sentenza del 20 dicembre 1969 condanna: Mariano Licari, colpevole del delitto di associazione per delinquere aggravata, alla pena di anni 8 di reclusione; Giovanni Anselmi, colpevole dei delitti di associazione per delinquere e di tentato omicidio, alla pena di anni 22 di reclusione; Gaspare Barraco, colpevole dei delitti di associazione per delinquere e di tentato omicidio, alla pena di anni 22 di reclusione; Giuseppe Bianco, colpevole del delitto di associazione per delinquere, ad anni 2 di reclusione; Pietro Bua, colpevole dei delitti di associazione per delinquere, furto e falsità in assegno, alla pena di anni 8 di reclusione e lire 80 mila di multa; Domenico, Vincenzo e Nicolò Curatolo, colpevoli dei delitti di associazione per delinquere e furto, rispettivamente alla pena di anni 5 e mesi otto di reclusione ed alla multa di lire 80 mila; anni 5 e mesi nove di reclusione e lire 90 mila di multa; anni 8 e mesi quattro di reclusione e lire 90 mila di multa; Vito Di Maria, colpevole dei delitti di associazione per delinquere, dell'omicidio di Valenti Giuseppe, dell'omicidio di Barbera Antonino, della soppressione del cadavere dello stesso Barbera, alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per anni 1, così computata per effetto del cumulo giuridico della pena; Domenico Di Vita, colpevole dei delitti di associazione per delinquere e tentato omicidio, alla pena di anni 22 di reclusione; Giuseppe Marino, colpevole dei delitti di associazione per delinquere e tentato omicidio, alla pena di anni 14 e mesi otto di reclusione; Giuseppe Tortorici, colpevole dei delitti di associazione per delinquere e falsità in assegno, alla pena di anni 3 e mesi undici di reclusione; Salvatore Ausilio, colpevole dell'omicidio di Barbera Antonino e della soppressione del cadavere, alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per anni 1. Con la stessa sentenza, la corte di assise di Salerno dispone per tutti gli imputati l'applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata e commina la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici. Mariano Licari è stato però assolto, per insufficienza di prove, dal delitto di omicidio di Vito Sammartano e, per non aver commesso il fatto, dai delitti di: omicidio di Giuseppe Giubaldo; omicidio di Nicolò Fici; omicidio e soppressione del cadavere di Ignazio Pellegrino; omicidio e soppressione del cadavere di Biagio Valenti; omicidio di Giuseppe Valenti; omicidio di Luciano Patti; tentato omicidio di Antonino Lombardo; tentata estorsione in danno dei familiari di Ignazio Pellegrino. La sentenza non è passata in giudicato, poiché sia il Licari sia la procura generale di Salerno hanno proposto appello.
Il proscioglimento per molti delitti - Licari e i suoi coimputati accusati, dopo mezzo secolo di omertà, da Nino Lombardo e Giuseppe Valenti, sono stati pertanto prosciolti dalle più gravi imputazioni. Complici involontari: il trascorrere del tempo, i provvedimenti di amnistia, le indagini lacunose e l'impossibilità di riascoltare i testimoni. Ai pochi mafiosi che sono stati condannati a pene severe, il decreto-legge del 1° maggio 1970, n. 192, « sulla determinazione della durata della custodia preventiva nella fase del giudizio e nei vari gradi di esso » ha consentito di beneficiare improvvisamente di un provvedimento che sarebbe stato loro precluso se l'iter giudiziario si fosse esaurito in un breve termine. Il Licari, usufruendo di due anni di condono, fu rimesso subito in libertà e fece ritorno a Marsala. Il 29 dicembre 1969 la questura di Trapani propose però a suo carico l'irrogazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno. Il 4 gennaio 1970 il Licari fu tratto in arresto, in esecuzione dell'ordinanza di custodia precauzionale emessa dal tribunale di Trapani. Fu riferito, nell'occasione, che il Licari versava in buone condizioni economiche, tanto da essere ritenuto in grado di mantenersi nella sede del soggiorno obbligato. In data 8 gennaio 1970 fu rigettata una istanza inoltrata dal Licari tendente ad ottenere la revoca del provvedimento allo scopo di sottoporsi ad un intervento chirurgico per erniotomia. Il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Trapani, dottor Pipitone, giudicò che il predetto non avesse necessità di essere sottoposto urgentemente a tale intervento.
Nuovo soggiorno obbligato - Con decreto del 20 gennaio 1970, al Licari fu inflitta la misura proposta, con l'obbligo del soggiorno nel comune di Sarmato (Piacenza) limitatamente ad anni tre, giustificando la mancata erogazione della misura nella durata massima con la considerazione della sua tarda età (77 anni) e delle sue precarie condizioni di salute. Il Licari, pertanto, fu munito di foglio di via con l'obbligo di raggiungere Sarmato entro il 26 gennaio. Prima di tale scadenza, il 24 gennaio, invece, il Licari si fa ricoverare nell'ospedale civile di Marsala per essere sottoposto all'operazione accennata (ernia inguinale sinistra irriducibile). Il tribunale, questa volta, accoglie l'istanza e, con decreto del medesimo giorno (24 gennaio) dispone la sospensione della partenza e l'esecuzione di un accertamento medico-fiscale, da affidare ad un medico militare, allo scopo di stabilire l'urgenza dell'intervento, la data in cui dovrebbe avvenire e il presumibile periodo di convalescenza. Il dirigente del servizio sanitario del comando del presidio militare di Trapani, il 29 gennaio, constatato che il Licari, sin dal 27, era già stato operato, diagnostica circa 50 giorni di convalescenza a far corso dalla dimissione dall'ospedale. Il dottor Pipitone considera però tale termine eccessivo e con ordinanza del 4 febbraio dispone per una ulteriore visita medico-fiscale e questa volta ne investe l'ufficiale medico di polizia, che giudica venti giorni di degenza sufficienti a porre il paziente in grado di viaggiare. La misura dovrebbe pertanto avere inizio il 1° marzo 1970. Intanto, la terza sezione penale della corte di appello di Palermo, competente alla trattazione dei ricorsi a suo tempo inoltrati sia dal pubblico ministero e sia dal Licari, avverso - ciascuno per la propria parte il decreto di erogazione della misura di prevenzione del 20 gennaio e competente, di conseguenza, ad adottare ogni ulteriore provvedimento, ritenendo che il Licari non sia affatto partito per Sarmato, con ordinanza del 16 marzo 1970 autorizza il Licari - in accoglimento di una sua istanza - a trattenersi a Marsala fino al 23 marzo, giorno in cui dovranno essere trattati i ricorsi suddetti. In tale giorno, infatti, la trattazione avviene ed il consesso giudicante eleva ad anni 5 la misura di prevenzione - che, pertanto, verrà a cessare alla fine del febbraio 1975 -; il 14 aprile successivo, la stessa autorità dispone che il Licari venga trasferito al comune di Tredozio (Forlì) - dal clima più mite - anche in considerazione del fatto che egli è sofferente di scompenso cardiaco. Non va trascurata la motivazione del decreto con il quale la corte di appello di Palermo (presidente Ferrotti) elevò la durata della misura inflitta al Licari: messo in rilievo il fatto che il Licari - capo di una delle due bande di criminali che si sono contese, nel territorio di Marsala e paesi limitrofi, la supremazia nel commettere estorsioni, nell'imporre non chieste protezioni e nel commettere in genere reati contro il patrimonio e contro la persona - non ebbe mai a desistere dal condurre una vita dedita al delitto ed all'indebito arricchimento; che, inoltre, denunziato per numerosi omicidi e per aver promosso ed organizzato una associazione per delinquere, era stato condannato per il solo reato di associazione per delinquere ed alla pena di anni otto di reclusione in parte già espiati ed in parte condonati; la corte di appello afferma che « la valutazione della pericolosità va fatta in base ad una valutazione globale della personalità del diffidato, nella quale si deve tener conto dell'attività pregressa e della pericolosità riflessa ». In definitiva, i giudici di appello ritengono che la estrema pericolosità del Licari sia tale da non consentire alcuna considerazione benevola dell'età e delle condizioni di salute, in ciò, soprattutto, dissentendo dalla precedente decisione del tribunale.
Licari e la richiesta di assistenza economica nonostante le diverse attività imprenditoriali - Il 22 aprile 1970, il Licari raggiunge la nuova sede di soggiorno obbligato, il comune di Tredozio, dove, dopo qualche giorno, inoltra istanza diretta ad ottenere assistenza economica, adducendo che l'unica sua fonte di reddito era costituita da una pensione sociale di lire 18.000 mensili ed esibendo all'uopo un certificato delle imposte dirette del comune di Marsala. Ma la richiesta viene respinta in quanto viene confermato che le sue condizioni economiche sono più che buone. A parte la casa e l'azienda agricola, risultava infatti ancora uno dei maggiori azionisti della ditta Serraino Vulpitta, importante deposito della birra Messina, della Coca Cola, di acque minerali e di carbon fossile. Viene, altresì, valutata con opportuno rigore una richiesta del Licari diretta ad ottenere una licenza da trascorrere a Marsala per assistere ai lavori della vendemmia e per la regolarizzazione dei conti con i suoi mezzadri (poco prima aveva tentato di far credere di essere nullatenente). Sui primi di novembre del 1970, la questura di Forlì apprende che il Licari riceveva saltuariamente visite dal genero Bua Pietro, a sua volta soggiornante obbligato nel comune di Castelfiorentino. La notizia pone giustamente in allarme; ma si accerta che si era trattato di una sola visita fatta, previo avviso alle autorità competenti, il 15 maggio 1970, dal suddetto Bua il quale stava scontando il divieto di soggiorno (per anni 5) in tutte le regioni ad eccezioni della Toscana e dell'Emilia, essendo stato così mutato il primo provvedimento in data 16 marzo 1970, dalla corte di appello di Palermo. Alla data della visita, il Bua era alla ricerca di una conveniente sistemazione in un comune della Toscana ed il 14 agosto 1970 (quindi, dopo la visita al Licari) si trasferì, per scontarvi la misura, nel comune di Castelfiorentino, proveniente da Ponte a Elsa, frazione di Empoli. Sul finire del 1970, a seguito di intervenuta difficoltà di alloggio e del peggioramento delle condizioni fisiche (il Licari era affetto da scompenso cardiaco con edema polmonare, per cui il 24 dicembre si era dovuto ricoverare nell'ospedale di Faenza), la corte di appello di Palermo dispone il trasferimento del Licari al comune di Bibbona (Livorno), dove giunge il 23 gennaio 1971. Il 18 maggio 1971 il Licari venne trasferito, insieme con altri mafiosi, all'isola di Linosa.