di Debora Borgese - L'Urlo, 26 novembre 2019
Antimafia. Parola abusata, carica di celebrazione e retorica. Così la definisce il presidente della Commissione speciale Antimafia Claudio Fava nel corso dell’incontro ampiamente partecipato che si è consumato sabato scorso, al Teatro Machiavelli di Catania.
Fava: “L’antimafia si è fatta sempre più celebrazione, retorica”
Dal Caso Saguto al Sistema Montante, senza dimenticare le gravi accuse che pendono su Salvatore Campo, la magistratura e gli organi inquirenti hanno smascherato quelli che fino a poco tempo fa erano considerati eroi, paladini dell’antimafia. Ma solamente di facciata.
«L’antimafia è diventata un brand di successo e anche di potere», conferma Fava dal palco del Teatro Machiavelli. «L’antimafia era il fatto, era una scelta. Era raccontare, guardare, denunciare, testimoniare, rappresentare. Non è un brand, non è un biglietto da visita. Nel momento in cui è diventato biglietto da visita dai caratteri celebrativi, l’essere espressione antimafia diventa anzitutto un salvacondotto. Cioè il diritto a non ricevere alcuna critica, alcuna obiezione, alcun dubbio».
Sì, perché se non la si pensa come i “professionisti dell’antimafia” il rischio di essere tacciati di mafiosità è molto alto. E guai a muovere dubbi e critiche a chi, nel tempo, ha costruito intorno a sé l’aura del paladino antimafia! Ma a quanto pare se ne starebbe guardando bene lo stesso Claudio Fava, nonostante le belle parole spese contro la mafia e l’antimafia di facciata.
Tra i corridoi dell’ARS si vocifera infatti che non abbia la minima intenzione di trattare in commissione l’esposto a firma di otto parlamentari che chiedono chiarimenti circa gli attentati che avrebbe subito Paolo Borrometi. Addirittura, uno dei firmatari sarebbe anche sul punto di ritirare la propria firma dal documento.
Qualora le informazioni spifferate si rivelassero fondate, unica la conclusione: la verità fa paura. O si temono ritorsioni di altro genere?
L’esposto. Borrometi nel mirino dei parlamentari regionali
Al centro dell’esposto, sono tre gli episodi oggetto di indagine conoscitiva dei parlamentari regionali. Episodi riportati dallo stesso Paolo Borrometi nel suo ultimo libro. Fatti denunciati agli organi inquirenti e raccontati alla stampa. Fatti che sono valsi a Borrometi l’assegnazione del servizio di scorta.
L’aggressione in campagna
Il primo episodio, riguarda l’aggressione che Borrometi avrebbe subìto il 16 aprile 2014. Secondo i parlamentari, si tratterebbe di una narrazione di Borrometi riconducibile – stando alle fonti dei parlamentari – a un alterco con il giardiniere di famiglia. Quindi, non a un’aggressione della mafia da parte di due uomini incappucciati che gli sarebbe poi costata la menomazione permanente della spalla.
L’incendio sul pianerottolo di casa
Il secondo episodio fa riferimento a un presunto attentato incendiario nello stesso anno presso l’abitazione modicana della famiglia Borrometi.
«Era una notte di fine agosto. Nel mio palazzo non c’era pressoché nessuno. Modica si svuotava perché andavano tutti al mare», racconta Borrometi a Monica Mondo nel corso di un’intervista andata in onda su TV2000.
«Quella notte, all’improvviso, fummo svegliati dalle fiamme che avvolsero il portone di casa. Pensate che i Carabinieri che fecero il sopralluogo, dopo che l’incendio fu domato, dissero che avessero messo così tanto liquido infiammabile che dal settimo piano (piano di casa della famiglia Borrometi, n.d.a.) le fiamme arrivarono fino al nono. Le fiamme non passarono dalla porta perché scoprimmo che la porta, oltre a essere blindata, era ignifuga».
I parlamentari, in considerazione dei fatti oggettivi quali la possibilità di accedere nello stabile e ottenere prove testimoniali inconfutabili come videoriprese di sicurezza, non escludono la simulazione dell’atto intimidatorio narrato.
L’autobomba
Il terzo episodio riportato nell’esposto fa riferimento al fallito attentato con un’autobomba che i parlamentari smentirebbero con atti di indagine. A loro avviso, le intercettazioni non sarebbero determinanti a stabilire il tentativo di attentato con autobomba. Ma, soprattutto, a seguito della denuncia, nessuno sarebbe indagato. E nessun indagato risulterebbe anche per l’aggressione e per l’incendio doloso del 2014.
I dubbi dei parlamentari, quindi, circumnavigano intorno a una domanda: chi mette a rischio l’incolumità di Paolo Borrometi?
Perciò, di riflesso: se non ci sono indagati per gli episodi denunciati, è possibile che i fatti siano stati costruiti per amplificare la figura dell’eroe antimafia?
E infine: perché a Paolo Borrometi è assegnato il servizio di scorta?
Interrogativi a suffragio della verità che, se la narrazione di Borrometi risultasse fondata dalla Commissione, fugherebbe ogni dubbio mettendo a tacere le malelingue. Se i fatti narrati non trovassero riscontri oggettivi, ci ritroveremmo difronte a una delle ipotesi costruite dalla Commissione presieduta da Claudio Fava sul Caso Antoci.
Il sen. Beppe Lumia all’ombra dell’antimafia di facciata?
Il nome del senatore Beppe Lumia lampeggia sempre a intermittenza, come un campanello d’allarme e di pericolo. Ma dal Caso Saguto al Sistema Montante, nessuna indagine avrebbe colpito il senatore onnipresente.
Tuttavia, singolari e al centro dell’attenzione dei più avvezzi a smascherare dinamiche poco ortodosse, le rivelazioni del sindaco di Cesarò Salvatore Calì contenute nella Relazione finale sul Sistema Montante in Commissione Regionale Antimafia. Il primo cittadino messinese avrebbe raccontato le pressioni esercitate dal sen. Beppe Lumia che lo incitava a dichiarare che l’attentato ai danni del Presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci fosse indiscutibilmente di matrice mafiosa.
A sollecitare l’assegnazione del servizio di scorta a Paolo Borrometi fu proprio il senatore Beppe Lumia con un’interrogazione indirizzata all’allora Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Lo stesso ministro che mise a capo dell’authority contro la corruzione Antonello Montante. Lumia, lo stesso senatore che incitava l’ex giudice Silvana Saguto a incentivare le attività del Tribunale Misure di Prevenzione e l’amministrazione giudiziaria alle aziende in odor di mafia. Aziende che, poi, mafiose non sempre si sono rivelate.
I rapporti in nome dell’antimafia tra Paolo Borrometi e il sen. Beppe Lumia si intercettano con la Fondazione Antonino Caponnetto, oggi presieduta da Salvatore Calleri (ex assessore regionale di Rosario Crocetta), i cui referenti regionali sono i senatori Beppe Lumia e Mario Michele Giarrusso.
Altri nomi della politica legati all’antimafia ruotano intorno a questa associazione. Tra questi, Pietro Grasso padre putativo per propria ammissione di Addiopizzo, associazione notoriamente legata a Ugo Forello. Ma anche Ivan Lo Bello e Sonia Alfano, tra i tanti.
Perché bloccare l’audizione in Commissione?
La Commissione Regionale Antimafia è costituita con la L.R. 14 gennaio 1991, n. 4. Tra le sue funzioni, oltre alla vigilanza, anche l’indagine: non si chiamerebbe “Commissione d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia”.
Non permettere a Paolo Borrometi di rispondere ai quesiti dei parlamentari che hanno presentato l’esposto, ed impedire ai parlamentari di esercitare le loro funzioni di indagine conoscitiva e di controllo per tentare di risalire ai suoi aguzzini (laddove i racconti di Borrometi fossero fondati) per “liberarlo” dalla scorta, non sarebbe solo antidemocratico. Ma si priverebbe un ragazzo della speranza di realizzare il suo sogno più grande: passeggiare sulla spiaggia di Scicli mano nella mano con una fidanzata, mentre un cagnolino rincorre le onde del mare. In sottofondo a questa scena romantica e di pace interiore con il mondo, Borrometi immagina pure le note di Francesco De Gregori con “La storia siamo noi”.
Alla “protezione forzata” si dovrebbe preferire sempre la libertà individuale incondizionata. O no?