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08/11/2019 06:53:00

Edoardo Nesi: "Speranza, malinconia: categorie abusate. Entriamo nelle fratture del tempo"

di Marco Marino


Per chi ha ventidue anni e prova a guardare di fronte a sé il futuro luminoso che tutti (scuola, casa, chiesa) gli hanno prospettato, cominciando forse ad accusare un lieve accenno di miopia; oppure per chi di anni ne ha cinquantaquattro e si sforza a guardare dietro di sé un passato che ha creduto e crede ancora il più felice avvenire possibile. Per entrambi, il nuovo libro di Edoardo Nesi, “La mia ombra è tua” (La Nave di Teseo, 2019) offre l’occasione di uscire dalle abusate categorie di speranza e di malinconia, e di avvicinarsi invece alla frattura più profonda che vive il nostro tempo. Che si riassume nella promessa, continuamente disattesa, che gli sforzi, le passioni dei ragazzi che domani erediteranno il Paese, possano tradursi in uno spazio migliore, più sicuro, più sereno, dove il progresso individuale coincide col progresso della propria comunità.


Fiducioso di quella promessa, Emiliano De Vito ha vissuto i primi vent’anni della sua vita passando da un «bozzolo» all’altro: sempre voti alti a scuola, sempre diligente a casa; prima il liceo classico, poi lettere classiche. E poi smette, non vuole continuare con la laurea magistrale, desidera cominciare a lavorare, vedere il mondo com’è fuori dalla crisalide che i suoi genitori e i suoi insegnanti gli hanno sempre costruito intorno. Per un sottile gioco del destino, diventa il segretario di un famoso scrittore, molto riservato, tale Vittorio Vezzosi, che dopo decenni dalla sua ultima apparizione pubblica, si è deciso a tenere un intervento all’interno di una fiera del vintage degli anni Ottanta e Novanta. Un’occasione straordinaria perché la voce del Vezzosi in tutta Italia verrà sentita e attesa come quella di chi finalmente redimerà il mondo offeso in cui abitiamo.


Nel suo nuovo romanzo, la voce narrante è quella di Emiliano. Perché ha preferito la sua prospettiva a quella del Vezzosi?

 

È stata una decisione piuttosto faticosa scegliere la prospettiva del ragazzo. Ho provato a far raccontare la storia dal Vezzosi, ho provato a raccontarla in terza persona … Poi, però, quando ho trovato la soluzione di Emiliano, mi sembrava la più adatta. Perché, vede, se io metto la distanza tra il narratore e il vero protagonista della storia, mi avvantaggio. Ho più registri, posso raccontare liberamente il Vezzosi senza far raccontare a lui quelle cose che fa, semplicemente vedendole attraverso gli occhi di Emiliano che conservano, questi occhi, lo stupore, la sorpresa, e una sospensione del giudizio che mi sembrava fondamentale.


Il personaggio del Vezzosi è davvero affascinante. Sembra una sintesi tra la figura di Jerome Salinger e Gatsby.


Gatsby e l’intera opera di Salinger sono stati i capisaldi della mia formazione sulla letteratura americana. Sono libri che mi hanno molto influenzato, mi hanno dato un modo diverso per interpretare la realtà che mi circondava. Io ho sempre visto il mondo un po’ all’americana. Questo mi ha molto aiutato perché è una visione un po’ distante delle cose... Voglio dire, la letteratura italiana ha sempre visto le cose in un modo, io le ho sempre viste in un altro. La mia alterità è data dal fatto che ho sempre vissuto in provincia, in una provincia industriosa dove si dava poca importanza agli scrittori. Questo però mi dava la grande libertà di fare quello che mi pareva. E quindi per me sono stati gli americani soprattutto a influenzarmi. Perché i russi non potevano, erano troppo lontani nel tempo. E allora volevo che il mio personaggio fosse toscanissimo, ma al tempo stesso volevo anche che si richiamasse all’idea di distacco dalla realtà. Prende la Toscana come quinta ideale per staccarsi dalla realtà e vede il mondo distante da sé. Infatti lui abita sopra Firenze ma non ci va mai, la guarda e basta.


Eppure il Vezzosi, distante dal mondo, profondamente ancorato al suo passato, quando annuncia che tornerà a parlare in pubblico, comincia ad essere visto come l’uomo che può salvare il futuro del Paese. Ci troviamo di fronte a un bel paradosso?


In questo momento il Paese ha bisogno di esempi, questo è evidente. Quasi sempre sono esempi negativi quelli che ci arrivano. Questo meccanismo di andarsi a cercare degli esempi, dei padri, delle persone con una superiorità morale, volevo metterlo alla berlina. E far sì che il protagonista di questo momento di speranza collettiva fosse una persona inadatta. Mi piaceva molto che a parlare di cosa dovesse fare l’Italia fosse un personaggio del passato, che altro non ha da raccontare che il suo passato. Ma invece che farla diventare una sorta di filippica sul bel tempo andato, Vezzosi fa il racconto semplice e credo potente - per me è stato doloroso scriverlo - di una sua giornata da sedicenne.


Si innesta così il tema della nostalgia.


Tutto questo libro nasce da una riflessione di anni sul problema della nostalgia, sul problema del passato. Io ho questo grande problema di come rapportarmi con il passato. Che in qualche modo cerco di risolvere sia nella mia vita che nella letteratura. Passato che in una città come quella nella quale vivo io (Prato, ndr) era veramente un’età dell’oro. Questa è una città che economicamente aveva una potenza pazzesca e il sistema che ho raccontato nei miei libri precedenti produceva una ricchezza straordinaria e soprattutto condivisa. Oggi mi accorgo che il mondo in cui ho vissuto per molti anni era una specie di paradiso, qualcosa di irripetibile. E non c’è più da vent’anni e probabilmente non tornerà più. È dura accettarlo, perché nel momento in cui lo accetti, devi accettare anche la perdita. Allora quando questo sistema finisce improvvisamente la gente comincia a sentirne la mancanza, a sentirne la nostalgia, comincia il problema di rapporto con il presente e soprattutto con il futuro.


In una passata intervista, aveva accennato a un suo incontro con Zygmunt Bauman proprio riguardo al tema della nostalgia.


Con questo problema addosso, una sera del 2015 incontro Zygmunt Bauman a un incontro della Milanesiana di Elisabetta Sgarbi. Siamo io e lui in una serata: io leggo un pezzo da «L’Estate infinita»; lui presenta «Retrotopia», suo libro fondamentale per me, uno dei suoi ultimi libri in cui diceva che la nostalgia era diventata l’arma dei demagoghi. Soprattutto da destra si immaginavano di poter restaurare la realtà e tornare al mondo delle eccellenze del passato. Bauman citava il lavoro di una slavista di Harvard, Svetlana Boym, che ha scritto un testo basilare sulla nostalgia che s’intitola «The future of nostalgia». Me lo sono divorato, quel libro. Lei, da slavista, ha vissuto per tanto tempo, e ha studiato, paesi come l’ex Jugoslavia, come la Russia, l’Ucrania, tutti posti nei quali il rapporto col passato è preponderante. Lì è cambiato tutto. Quindi lei s’è trovata di fronte a un mondo interamente nostalgico. E alla fine ha distinto due tipi di nostalgia: uno è quello restaurativo, di Salvini e di Trump; e poi c’è un altro tipo di nostalgia, quella “riflessiva”, la chiama lei, che è personale, privata, irreparabile. Perché la vivi quando ti manca tuo padre, e non c’è più, e tuo padre non lo puoi riavere, non puoi restaurare il padre, quindi il tuo tempo è impiegato in una sorta di richiamo, ricordo e rimpianto melanconico, uno strumento continuo che ti fa pensare: sì, è andata male, sì, si stava meglio prima; però a livello personale, quindi non puoi neanche andargli troppo contro a questa cosa, perché è giusta, se ti manca tuo padre, se ti manca tua madre, se ti manca la tua vita di quattordicenne.


E questo come si riflette sul suo romanzo?


Tutta quello che sto dicendo va a spiegare perché il libro racconta la perdita personale del Vezzosi, che è poi alla fine la nostalgia è la perdita di un mondo che in Italia si può provare legittimamente: io la provo, moltissimi la provano senza avere la possibilità di esprimerlo perché non hanno letto Bauman, non hanno letto la Boym, però è così. Emiliano, questo ragazzo di vent’anni, vive in un mondo in cui tutti gli uomini più grandi di lui pensano che oggi sia peggio di ieri e spesso non hanno il coraggio di dirlo. Questo è in parte vero e in parte no, il fatto di essere anche solo in parte vero, danneggia enormemente la vita e le prospettive del ragazzo.


[La nostra intervista a Edoardo Nesi prosegue domani, sempre sulle pagine culturali di Tp24.it]