Si scrive PD, si legge caos.
Da quarantotto ore il Pd siciliano è sotto il (proprio) fuoco incrociato, quello che in mesi si è anticipato si sta verificando: due, ma anche tre e quattro, anime del partito si stanno scontrando per la segreteria regionale.
E’ stato commissariato Davide Faraone, eletto a dicembre 2018, quando la sua competitor, Teresa Piccione, decise di ritirarsi dalla corsa alla segreteria di via Bentivegna adducendo una serie di irregolarità.
Cinque mesi dopo , venerdì scorso, dopo vari rinvii, è arrivata la decisione della commissione di garanzia nazionale.
In mezzo ci sono state le primarie nazionali, vinte da Nicola Zingaretti, che ha subito predicato l’unità ma che ha continuato ad ammiccare alle correnti, ignorando quella renziana, e avvertendo Faraone: in Sicilia il vulnus verrà sanato.
Contraddizioni a cui il partito è abituato, l’elettorato pure tanto che si è trovato a votare altrove pur di non consegnare il Paese ad un partito, che allo stato dei fatti, un’idea di Paese non ce l’ha e nemmeno di opposizione. A cascata questo accade al nazionale come al regionale.
Da dicembre in poi la segreteria di via Bentivegna, a Palermo, era tornata attiva, nonostante i debiti e i dipendenti licenziati, con tante battaglie politiche. L’ultima azione forte una marcia lunga 90 km da Ragusa a Catania per denunciare il blocco delle infrastrutture a causa del governo nazionale.
Dalle discariche ai siti archeologici Faraone ha puntato il dito contro il presidente della Regione, Nello Musumeci, i dem all’ARS hanno fatto una opposizione leggera, assente, vana.
Faraone si è autosospeso dal partito, lo ha fatto con un lungo post su Facebook, una nota di amarezza ma la convinzione di non fermarsi davanti alle carte bollate.
Tra le accuse e i rigurgiti da Roma, Silvia Velo, la presidente della commissione di garanzia sottolinea che la decisione presa è legata ad aspetti procedurali, non rispettati per lo svolgimento delle primarie di dicembre, non è una decisone politica, dice.
Si conosce molto, e bene, quale sia l’opinione e il trattamento riservato ai renziani, si fatica ad accettare che Matteo Renzi ha una propensione naturale alla leadership.
Del resto Zingaretti è stato eletto segretario nazionale il 3 marzo scorso, da allora non c’è una linea politica, non c’è l’alternativa. Vivacchia, galleggia, e al momento giusto ammicca e amoreggia con i Cinque Stelle.
E’ storia di una guerra annunciata, Renzi dal Montana lo dice in maniera netta: Zingaretti sbaglia a sfiduciare Faraone e non Matteo Salvini.
E’ quello che accade dentro un partito che è perennemente in lotta al suo interno cercando di schiacciare chi primeggia.
Faide, notabili, rinnovamento, tutto resta nel limbo che non farà emergere nessuna linea se non quella della discordia, ma si sa, sono gli stessi del partito che hanno lasciato i territori subito dopo l’elezione salvo comparirvi a breve e cercando protezione al nazionale per la prossima consultazione.
Lo si dica chiaro: il problema è questo.
Lasciare la segreteria regionale a Faraone avrebbe anche comportato un impegno in prima persona per la composizione delle liste per le future campagne elettorali, meglio non rischiare, meglio mescolare le carte e cercare di saltare dall’ARS al nazionale, passando prima per il tesseramento sui territori e la spartizione delle segreterie. E’ storia vecchia, ed è tornata.