Il processo per la strage di via D'Amelio è stato uno «dei più gravi errori giudiziari della storia del nostro Paese». Ma mentre la prima sezione della Cassazione fa questa affermazione, riferendosi a un'istanza di revisione presentata da Gaetano Scotto, la quarta sezione della stessa Corte accoglie il ricorso dell'Avvocatura dello Stato e annulla con rinvio il risarcimento del danno a una delle vittime di quell'errore, Salvatore Tomaselli, ai cui eredi erano stati assegnati quasi 800 mila euro. Gli eredi: perché nel frattempo lui è morto.
Un po' un corto circuito giudiziario, nell'infinita vicenda della strage Borsellino, in cui si cercano ancora gli autori del depistaggio delle indagini, ma lo Stato non riesce a chiudere i conti con le responsabilità di chi, a Caltanissetta e altrove, non si accorse dei pentiti falsi e mentitori, delle ritrattazioni più volte ritrattate e controritrattate, delle accuse che non stavano in piedi e che furono smontate solo grazie al pentimento di Gaspare Spatuzza, a partire dal 2008.
Ricorsi diversi e del tutto distinti tra di loro, quelli presentati da Scotto, assistito dall'avvocato Giuseppe Scozzola, e dagli undici fratelli di Tomaselli, morto nel 2011 dopo avere scontato quasi del tutto gli 8 anni e 6 mesi che gli erano stati inflitti, con l'accusa di avere nascosto nella propria officina la 126 rubata e destinata a essere trasformata in autobomba. Accusa fasulla, ma secondo la Cassazione è da rivedere l'accoglimento - deciso dalla Corte d'appello di Catania - del ricorso presentato dall'avvocato Mario Bellavista per Tomaselli, colpevole di associazione mafiosa. Lo stesso imputato, aveva sostenuto l'Avvocatura nel proprio controricorso, aveva in qualche modo dato causa ai sospetti a suo carico, anche perché gravitava nell'ambiente degli spacciatori di droga e conosceva il boss Pietro Aglieri.
Le motivazioni dell'annullamento con rinvio della quarta sezione non sono ancora note. Mentre lo sono le parole della prima sezione, che bolla come gravissimo l'errore costato le condanne complessivamente di 10 persone, tra cui Scotto, che ebbe l'ergastolo con altri sei imputati. Condanne emesse «sulla base di un materiale dimostratosi, con il passare del tempo, estremamente fragile e inidoneo». Anche in questo caso si tratta di un annullamento con rinvio e dunque, in accoglimento del ricorso dell'avvocato Scozzola, è stato disposto un nuovo giudizio in appello, a Catania. Per Scotto e per gli altri era stata infatti revocata la condanna definitiva per la strage del 19 luglio 1992, vittime Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta: non era stata «revisionata» invece la condanna per associazione mafiosa. E proprio su questo la prima sezione della Cassazione ordina un nuovo giudizio.
I supremi giudici ricordano che le condanne erano «cadute» a Catania, il 13 luglio 2017, sulla base della «accertata falsità delle dichiarazioni di accusa rese, all'epoca delle indagini e nei giudizi di merito celebrati tra il 1994 e il 1996, da Vincenzo Scarantino». Tutto quello che dice il falso pentito («È tema incontroverso e ripreso dalla Corte catanese») è viziato da insanabile falsità. Cosa emersa solo grazie alla successiva «collaborazione prestata da Gaspare Spatuzza», che «in larga misura aveva realizzato i segmenti» della strage di cui si era autoaccusato proprio Scarantino, «soggetto di cui si è arrivati a dubitare circa la stessa effettiva intraneità al consorzio mafioso». Le sue dichiarazioni valgono cioè zero anche quando si parla di mafia, dicono i giudici di piazza Cavour, tant'è che, nonostante le «fonti “indipendenti”» dal falso pentito, «che pur restano indubbiamente valutabili», è stato sempre «espresso all'epoca un sapere non sempre diretto e non sempre incentrato sulla specifica attribuzione di un ruolo a Scotto nel consorzio mafioso».