di Marco Marino
Fisiologicamente la letteratura cambia. La valenza che possiamo dare all’avverbio fisiologicamente altera il significato della frase, che può essere letta come una semplice asserzione (“è normale che la letteratura cambi”) oppure come una constatazione sulla natura del cambiamento (“La fisionomia, la costituzione di ciò che chiamiamo letteratura oggi è cambiata”). Di questa metamorfosi, del nostro rapporto con la lettura, ne parliamo con Alberto Casadei, autore di Biologia della letteratura (il Saggiatore, 2018), libro vincitore del Premio Mondello Critica 2018.
Non s'è mai letto e scritto così tanto, ovvero la capacità di lettura e scrittura non è mai stata tanto estesa e applicata come nella nostra epoca. Come si riesce a conciliare questo paradossale dato con le sempre catastrofiche segnalazioni dell'Istat sulla lettura in Italia?
Dunque, il problema è innanzitutto socio-culturale: qualche decennio fa, imparare a leggere e scrivere era ancora un privilegio di pochi, e gli analfabeti sapevano benissimo che la buona cultura era sinonimo di potere. C’erano quindi molti stimoli a imparare sempre di più: basta pensare all’ambiente de L’amica geniale di Elena Ferrante per rendersene conto. Adesso la cultura scritta e la lettura sono diventate un patrimonio quasi universale (parlo ovviamente dell’Italia e dei Paesi più avvantaggiati), ma nello stesso tempo non sembrano più così necessarie: il mondo di Internet, e in particolare tutte le forme social ora incessantemente diffuse con gli smartphone, sono molto più facili da frequentare, piacevoli e immediati, addirittura in apparenza democratici, dato che chiunque può postare suoi video o altro e ottenere grandissimi riscontri, like, ecc. Non c’è quindi niente di strano a notare che molti potrebbero leggere ma pochi in proporzione lo fanno; paradossalmente sono quasi di più, in proporzione, quelli che ancora puntano sulla scrittura per il riconoscimento di una loro capacità, per esempio poetica: ma se sono poeti i cantautori, i parolieri e tante altre categorie, verso la lettura della poesia scritta c’è poco interesse. Insomma, uno può scrivere ma agli altri interessa poco, se non in quanto fenomeno sociale. Per cambiare completamente il modo d’approccio, bisognerebbe cominciare dalle scuole: pochi testi molto importanti, letti e meditati in tanti modi, anche attraverso rielaborazioni personali (perfomance, video, ipertesti nel web ecc.), e soprattutto attenzione a quello che solo la letteratura riesce a dire. Se voglio capire come si sente e come muore un soldato, più che ai videogame devo rivolgermi a Guerra e pace o a Una questione privata.
Quando dobbiamo dire cos'è un classico, solitamente ci nascondiamo dietro le parole di Italo Calvino e subito citiamo a memoria: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». È ancora esaustiva questa definizione?
Con tutto il mio rispetto per uno scrittore e un intellettuale di prim’ordine qual era Calvino, devo dire che ho sempre trovato questa definizione piuttosto deludente. Il fatto che un classico si rilegga è implicito nel suo statuto; che poi abbia sempre qualcosa di nuovo da dire è vero, ma sembra dipendere molto più dai lettori-fruitori che non dall’opera in sé. E poi, come la mettiamo con i lunghi periodi in cui un classico non piace, per esempio Dante tra Cinque e Settecento? Non è più un classico, ha momentaneamente finito di dire quello che doveva e aspetta tempi migliori?
Io personalmente credo che si debba innanzitutto parlare di capolavori: classico è un concetto tipico di una grande cultura umanistica, che vedeva negli Antichi e poi in genere nelle opere durature un valore particolare, quello appunto di vincere l’oblio cui sono destinate le cose umane. Ma adesso, sinceramente non è che Omero, Dante o Shakespeare interessino per questo. Interessano perché hanno catturato elementi della nostra percezione profonda, appunto biologico-cognitiva, del mondo, che in effetti solo epoche successive sono in grado di comprendere meglio: e chissà quante ce ne sfuggono ancora! Per esempio, Dante costruisce certi canti come delle sequenze cinematografiche, con stacchi improvvisi, montaggi ecc. Noi lo capiamo, ma uno scrittore della sua epoca no, tanto è vero che persino un buon narratore come Boccaccio non riesce a fare niente di simile: ha bisogno di dire tutto perché all’epoca era normale così. Ma se poi arriviamo al finale del canto XXVI dell’Inferno e leggiamo che la nave con Ulisse e i suoi sprofonda nell’Oceano proprio quando è giunta in vicinanza di una grande montagna, noi possiamo anche non pensarci ma qui siamo ai livelli dei finali-non finali delle migliori fiction di Netflix: perché un lettore del Trecento non poteva assolutamente sapere che quella era la montagna del Purgatorio, dato che è Dante a metterla lì, e lo veniva a capire, oltretutto in maniera indiretta, solo otto canti dopo. Insomma, Dante sa che ci vuole la suspence ma la crea con un’abilità e una capacità attrattive che solo adesso riusciamo a godere in pieno. Un classico-capolavoro deve avere potenzialità come queste, che siano colte o no.
Oggi possiamo dire, senza incorrere nell'eresia, che una stagione di Breaking Bad, di Black Mirror, è percepita o ha lo stesso valore letterario di un romanzo di Dostoevskij?
E sempre a proposito di Black Mirror, cosa ne pensa e che rivoluzioni letterarie ha innescato l'episodio interattivo Bandersnatch? Ha fatto discutere molto in queste settimane.
I confronti si possono sempre fare, ma a volte sono fuorvianti. Così come io personalmente ritengo che non sia stato giusto dare il Nobel a Bob Dylan, non perché non sia un grande artista ma perché è di una categoria diversa rispetto agli scrittori di testi solo scritti (a dirla tutta, è lui che ha dato qualcosa a un premio spesso molto discusso, non il contrario), così onestamente non si possono mettere sullo stesso piano opere solo scritte oppure visive e dialogate: i presupposti compositivi e gli effetti sono parecchio diversi. Se però vogliamo parlare in termini assoluti, cioè di potenza delle opere d’arte, non faccio fatica a dire che, attualmente, molte serie televisive di alto livello, come quelle citate oppure True detective (specie la prima ma anche la terza serie) o Orange is the new Black o altre ancora, sono davvero notevoli: del resto, dall’inizio del Novecento il nostro immaginario è stato sempre più colonizzato dalle scene madri dei film, poi della televisione (che ha un impatto più basso ma più pervasivo), ora del mondo di Internet (che fornisce eventi di durata brevissima ma continuamente rinnovati). Ci sono precisi motivi che giustificano questo, e tuttavia non è che le grandi opere letterarie non contino più: bisogna far capire che ci sono metafore concettuali che non si riducono al visivo e che sono quelle su cui costruiamo gran parte della nostra interpretazione della realtà. Certo, ora fare un capolavoro come quello di Dante con la sola scrittura sarebbe molto difficile: ma si possono prevedere forme miste, come attualmente le graphic novel, che avranno sempre più potenzialità emotivo-cognitive in futuro.
Quanto alla scommessa di Bandersnatch, devo dire che mi è sembrato più un tentativo di cui parlare che non una grande innovazione: in fondo, c’erano già negli Novanta del secolo scorso ipertesti che prevedevano soluzioni multiple, scelte diversificate ecc. Certo, questo è stato un tentativo molto più complesso, ma concettualmente non diverso: e direi che non ha nemmeno tante possibilità di attecchire. Uno degli scopi del raccontarsi storie è quello di condividere un grande patrimonio culturale, e questo sin dalla preistoria ha rafforzato la compattezza dei gruppi. Ma se ognuno, vedendo lo stesso programma, vede una storia diversa, che cosa si commenta insieme, alla fine?
Nella motivazione del Premio Mondello leggiamo che Biologia della letteratura vuole dare risposte inedite alla lettura delle opere letterarie restando «sempre attento a considerare le ragioni della storia in equilibrio con quelle della biologia». Potrebbe spiegarci come questo equilibrio fra storia e biologia può riuscire a farci leggere diversamente un libro?
Dobbiamo allontanarci dalle divisioni troppo rigide cui siamo abituati, semplicemente perché sono comode: per esempio, quella fra Natura e Cultura non è un’opposizione netta, perché gli elementi naturali, biologici in senso ampio, danno origine e sostanziano quelli culturali, che in prima battuta possono essere considerati delle elaborazioni di nostre propensioni cerebro-corporee. Anche le arti non sono un’eccezione, e infatti nel mio libro parto addirittura dai disegni delle Grotte di Lascaux per far vedere come uomini di 30.000 anni fa potevano essere dotati di capacità mimetiche notevolissime (alcune bestie sono rappresentate perfettamente), ma quelle sono in fondo propensioni naturali. Invece, quando viene rappresentato, molto schematicamente, un uomo ucciso da un bisonte, all’interno di rito sciamanico, cogliamo una complessità concettuale e soprattutto una volontà di rappresentare quell’evento: in quel disegno c’è arte e non più solo biologia.
Per la letteratura le cose vanno un po’ allo stesso modo: all’inizio si trattava di formule, di ritmi scanditi per balli e funzioni religiose; poi questo uso specializzato del linguaggio è stato prezioso per cominciare a raccontare imprese, tanto è vero che le narrazioni epiche più antiche sono in versi; poi si è cominciato a lavorare su tanti altri aspetti (le metafore e le altre figure retoriche ecc.) per arrivare a uno stile (parola fondamentale e da reinterpretare completamente) sempre più riconoscibile: tutto questo costituisce un continuo potenziamento di capacità presenti in ogni essere umano, ma finalizzate a ottenere determinati effetti solo dagli artisti più abili.
Noi oggi non ci accorgiamo tanto di questo percorso perché veniamo introdotti in fasi della letteratura e delle altre arti già molto avanzate, per esempio senza più il bisogno di avvicinarsi il più possibile alla realtà come un tempo si richiedeva a una buona opera, oppure di ottenere una perfetta armonia ecc. Ma in effetti anche nelle opere attuali continuano a essere in gioco gli elementi di sempre: per ottenere un buon effetto occorre uno stile che sottolinei quelli che chiamo i ‘nuclei di senso’, quello che l’artista vuole davvero esprimere al di fuori delle convenzioni e dei vincoli socio-culturali. Questi ultimi cambiano nei vari periodi storici, ma alcune caratteristiche biologico-cognitive sono le stesse sia in un dipinto preistorico sia in un quadro di Pollock.