Ho fatto le scuole elementari in un istituto religioso. La mia maestra si chiamava Suor Elvina. Un giorno, avendo io dimenticato a casa un certo quaderno che lei mi aveva raccomandato di portare, la benedetta donna mi obbligò a scrivere sulla lavagna, per cento volte, la parola “oca”. Formidabile lezione! La vergogna che provai nell'eseguire quel compito tormentoso produsse in me un effetto straordinario. Fu quello il vero giorno, io credo, nel quale cominciai a intuire il valore incommensurabile dell'ascolto e dell'attenzione. Fu allora che iniziai a sottrarmi al dominio delle distrazioni puerili, e per la prima volta varcai la soglia di quella che un tempo si usava definire “l'età della ragione”.
Di quante Suore Elvine avrebbe bisogno la distratta umanità di cui oggi siamo spettatori e complici! Ecco gli automobilisti alla guida: almeno quattro su dieci hanno gli occhi puntati sul telefono cellulare invece che sulla strada. E gli altri sei se lo tengono in grembo o in mano, in trepidante attesa di un segnale acustico a cui rispondere precipitosamente. A cena, in compagnia di amici e parenti in carne ed ossa, c'è chi non resiste alla tentazione di chattare (orribile verbo!) con persone lontane. Al mare si entra in acqua non più “con le pinne e gli occhiali”, come diceva la vecchia canzone, ma col cellulare stretto in una mano, per farsi i selfie da inviare ai poveracci che in città stanno sudando nella calca di un tram. I turisti smarriti in lande straniere non chiedono più informazioni agli abitanti del luogo, ma si lasciano guidare come automi dalle voci metalliche delle guide satellitari... che li spediscono in strade momentaneamente chiuse al traffico, o in tipiche “trattorie locali” convertite nel frattempo al kebab o agli involtini primavera.
Gli esempi sarebbero infiniti e stucchevoli. Ma ora sto pensando ai tramonti sul mare, che per tanta gente distratta non sono più spettacoli della natura da vivere e ammirare col fiato sospeso, ma banali soggetti da inquadrare nell'occhio del cellulare. E ci penso perché qualche sera fa, dal lungomare della città in cui vivo si poté osservare perfettamente il meraviglioso e rarissimo fenomeno del “raggio verde” nell'attimo finale del tramonto. Passava accanto a me in quel momento una folta compagnia di ragazzi e ragazze, ma nessuno di loro s'accorse del miracolo: erano tutti intenti a scattarsi foto e selfie. Allora li fermai, li informai di quel ch'era accaduto, e loro, increduli, assunsero l'aria di chi ti prende per matto. Solo una ragazza si mostrò interessata a quella notizia stravagante. Le consigliai di leggere Il raggio verde di Jules Verne, o di ritrovare l'omonimo e bellissimo film di Eric Rohmer, e lei mi ringraziò con un sorriso: chissà, forse il magico raggio di una nascente attenzione riuscì in quel momento a illuminarle il cuore.
Insomma, si può ben supporre che la pandemia decerebrante da iperconnessione compulsiva abbia ormai superato i livelli di guardia, bruciando la linea del non ritorno sulla via della robotizzazione umana integrale. Come un suicidio collettivo dei cervelli riciclati in poltiglia telematica che viaggia nell'etere alla velocità della luce. Infatti, il prossimo e non lontano passo della tecnologia comunicativa potrebbe essere quello dei videocontatti olografici. Un dispositivo cerebro-oculare ci consentirà di “incontrare” la vivida immagine tridimensionale di una persona lontana, di fare con lei delle passeggiate, di simulare baci e carezze, di passarci una notte insieme a letto e di percepire perfino l'odore della sua pelle. Così andrà a finire che, mentre ignoreremo la presenza della persona vera che ci starà accanto, c'impegneremo in una segreta e intensa relazione col fantasma di qualcuno che potrebbe perfino non essere più in vita (anche i messaggi olografici si potranno tenere in memoria, e questo ricorda il profetico romanzo L'invenzione di Morel di Bioy Casares, tanto amato da Borges).
A questo punto non si può non ripensare anche a ciò che sostenne la filosofa Simone Weil a proposito dell'attenzione: la vera attenzione è la pura disposizione psicologica che ci fa vivere nella realtà, mentre la disattenzione è l'ammaliante sirena che ci distoglie dalla retta navigazione e ci sospinge nel regno dell'irreale. L'attenzione apre la porta dell'anima all'empatia, all'amore, all'ascolto, alla comprensione, alla generosità verso gli altri e verso se stessi. La disattenzione apre la porta all'egocentrismo, al solipsismo, all'avarizia. E alla demenza. Ma attenzione! La vera attenzione non deve essere confusa col banale “sforzo di concentrazione”. Non è un esercizio duro, pesante, costrittivo. Al contrario: è libertà dell'anima che abbandona i confini dell'ego e si alleggerisce dei suoi fardelli per aprirsi agli altri, al mondo, alle grandi e alle piccole cose della vita quotidiana. È la stessa via indicata dal buddismo zen nella disciplina catartica del vuoto mentale.
Mi piace immaginare che Suor Elvina volesse dirmi questo nell'infliggermi la lezione dell'oca. In ogni caso, sono certo che devo anche a lei la grazia di aver goduto qualche sera fa lo spettacolo fantastico del raggio verde sull'orizzonte del mare.
Sélinos