I ponti che crollano, e quelli che dobbiamo ricostruire
L’estate italiana del 2018 verrà ricordata per tante cose, non solo per il matrimonio tra Fedez e Chiara Ferragni. E’ l’estate dei ponti che crollano, dei poveri cristi lasciati in balia del mare. Ed è soprattutto, la prima estate in cui l’Italia ha sperimentato una formula anomala: quella di avere di fatto due presidenti del consiglio, Di Maio e Salvini, che non solo litigano in continuazione, ma sono in campagna elettorale perenne.
Il più guappo è Matteo Salvini, che gestisce un Ministero, quello dell'Interno, che lui ha trasformato in ministero della paura e della caccia all'immigrato, al diverso. Le ronde contro i vu cumprà in spiaggia, le navi con i naufraghi bloccate davanti ai porti, le magre figure a Bruxelles dove anzichè ragionamenti abbiamo portato isteria, nel silenzio complice dei grillini, che pur di conservare la poltrona (e l'unico posto di lavoro finora ottenuto in Italia grazie alle loro politiche di sviluppo: quello di Di Maio) inghiottono tutto e tutto giustificano, e difendono Salvini più della cellula leghista di Pontida.
Sono passati quasi sei mesi dalle elezioni, ma siamo sempre in campagna elettorale. E’ tutto un tweet, un post, un hashtag, una battuta, un rinfocolare odio, aizzare contro, comiziare, farsi i selfie.
Poi, nel nulla, arriva la vita, quella vera, che ti investe, come sempre accade, senza chiedere il permesso.
Il ponte Morandi che crolla, a Genova, è metafora di un Paese, lasciatemelo dire, ma non nel senso dello stato delle opere pubbliche italiane, o nel senso della nostra cattiva classe politica di ieri e di oggi e delle sue responsabilità, io parlo del ponte in senso ideale, perché un ponte davvero si è spezzato, siamo tutti in guerra.
Siamo tutti in guerra.
Cosa significa fare il giornalista? Non so quante volte ho dovuto rispondere a questa domanda, in vita mia. Il ruolo del giornalista, o dello scrittore, l'intellettuale, che fa. Ho imparato a mie spese e praticato con la grazia della quale sono capace, l'unica grazia, quella delle parole, che il giornalista / intellettuale / scrittore ha un compito, essere sempre dalla parte opposta rispetto al potere, qualunque esso sia, sia se questo potere rappresenti certa oligarchia fatta in nome dell'antimafia, roba sulla quale ho scritto parecchio, sia quando il potere è rappresentato dall'onda populista, dal “nuovo che avanza”, dal “cambiamento”.
E un giornalista / intellettuale / scrittore non sta a guardare, chiama le cose per nome, soprattutto se queste "cose" (il senso di ciò che ci rende umani, ad esempio) vengono prima della politica e della cronaca. Fare le pulci al potere è la mia missione, soprattutto a questo potere pasticcione e finto.
Non posso stare a guardare, insomma, devo dire quello che penso. Ed è così che mi sono attratto sempre più nemici, quest'estate, ricevo insulti in maniera quotidiana per le cose che scrivo, frasi oscene, volgarità. I social sono un pantano dal quale bisogna scappare, come insegna un ottimo libro del Saggiatore ("Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social", qui il link).
E allora vale la pena scrivere, parlare, dire, sugli immigrati, l'uno vale uno, la casta degli anticasta, e sulle altre imposture, se tutto ciò non convince nessuno a cambiare idea, se il tuo sapere è messo alla pari con chi in vita sua non ha mai aperto un libro, se ogni idea controcorrente serve solo a ricevere insulti, insulti, insulti?
Serve, si. Serve in nome di ideali che sono più alti dei social, di noi, delle cose meschine, serve perchè quello che accade nel Mediterraneo non è un caso o la cronaca, è la storia. Serve per un paradosso, serve perché scrivere non serve a niente. Stare in silenzio, però è imperdonabile. Ed è catastrofico.
Mi insultano, mi chiamano cameriere o giornalaio, "pidiota" - niente sapendo che dalle parti del Pd quando loro erano il potere, fino a sei mesi fa mi odiavano e mi davano del grillino - mi minacciano di qualunque cosa. Io un po' mi diverto, faccio qualche battuta, poi perdo la pazienza, comincio ad insultare anche io.
Ed eccolo, il ponte crollato.
Perché finisce tutto ad insulti, perdo la pazienza, sono umano. E ogni volta avverto dentro di me come il fragore di un ponte crollato.
E’ questa la grande colpa di Salvini e di Di Maio, secondo me, ed è roba troppo grande per finire davanti ad un Tribunale dei Ministri: la responsabilità di aver distrutto i ponti tra noi, noi familiari, noi comunità, noi amici, noi italiani, di aver aizzato l’odio - che sui social viaggi velocissimo - il sospetto, il rancore, di averci costretto a diventare l'un contro l'altro armati di furori e di insulti.
C'è un guerra civile in Italia, che espressione esagerata, direte, lo so, ma Papa Francesco dice che la terza guerra mondiale si sta combattendo pezzetto a pezzetto nel pianeta, e io penso che c'è una guerra civile che si combatte allo stesso modo in Italia, tribù contro tribù, ed è una guerra davvero. Ci hanno avvelenato, facendo emergere la parte peggiore di noi, ridicolizzando la scienza, rinnegando l'Europa e le sue istituzioni che hanno garantito il benessere che oggi viviamo e nel quale sputiamo, schernendo i giornalisti come se fossero servi del potere, quando il potere adesso sono loro..., accogliendo i neofascisti come simpatici nostalgici dalle idee poi non tanto strampalate.
Hanno distrutto i ponti, ci hanno reso nemici.
E allora, siccome è Settembre, e Settembre è tempo di impegni, di diete annunciate, come di progetti futuri, qui un impegno noi lo prendiamo. E utilizzo il noi, per dire di me e di questa redazione, certo, ma anche di tante persone che come me vivono con difficoltà e solitudine questo momento - che non riguarda la destra o la sinistra, il Pd o Forza Italia, riguarda prima di tutto il buon senso - e come in quella canzone di Paolo Conte si chiedono: “Chi siamo noi?”.
"Chi siamo noi / e dove andiamo noi / nel sonno spalancato sul silenzio...?"
Non lo so chi siamo noi. Ma so cosa dobbiamo fare. Dobbiamo impegnarci per ricreare una comunità, italiana, certo, ma prima di tutto, europea (non nel senso dei conti economici, ma nei principi, nel senso della cultura, degli ideali), e ancora prima umana. Perchè noi siamo per le persone, non per le nazionalità.
Siamo per l'Europa, non per gli staterelli.
Siamo per l'unione.
Siamo per il merito e la scienza.
Siamo per la profondità, non per gli slogan.
Siamo quelli che vogliono capire, non vogliono urlare.
Siamo intolleranti con gli intolleranti.
Noi siamo volenterosi, pazienti, ricostruttori di una comunità distrutta.
Come si fa? Con il tempo necessario. Ci vuole infatti tempo per spiegare le cose a chi vive ormai solo di slogan, è vero, ma ogni tanto accade il miracolo. Che qualcuno si ferma, un altro capisce, un altro ancora decide di vederci chiaro e, toh, "perde tempo" a leggere un libro.
Lanciare uno slogan dà soddisfazione, odiare qualcuno è liberatorio, lo so, ma è ancora più liberatorio (perchè è questo che ci rende umani) imparare qualcosa, la soddisfazione di imparare qualcosa, come quando si monta un mobile dopo mille peripezie con un amico, l'anta al contrario, un perno che non si trova, il cacciavite sbagliato, e poi ci si stringe la mano, e si guarda l'armadio con orgoglio, perché abbiamo imparato qualcosa, ci siamo riusciti, senza odiare, con l’applicazione, perché qualcuno più preparato di noi ce l’ha spiegato. Ecco. Abbiamo tempo per spiegare, per ricostruire.
Perchè il ponte è crollato nel paese. Ma, mattone dopo mattone, ogni nostro gesto quotidiano può rimetterlo in piedi.
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