Nicolò Clemente, arrestato il 6 luglio scorso, non si può certo definire un imprenditore insospettabile. La sua famiglia ha sempre avuto uno stretto legame con i Messina Denaro.
Ciò che unisce Clemente e la famiglia dell’ultimo latitante di Cosa nostra, è rappresentato dal fratello Giuseppe.
Proprio per volere di Matteo Messina Denaro, spiegano gli inquirenti, Giuseppe Clemente ha partecipato a diversi omicidi, per i quali fu condannato all’ergastolo nel 2000, morendo suicida in carcere otto anni dopo, nel giorno del compleanno del superboss, il 26 aprile 2008.
L’omicidio più rilevante fu quello di Pietro Calvaruso, nel settembre del 1991. Un alcamese vicino alla cosca dei Greco, sequestrato e interrogato dalla cosca dei Messina Denaro (gemellata invece con il clan alcamese capeggiato da Vincenzo Milazzo), per conoscere i segreti della cosca avversaria. Il luogo dell’interrogatorio era la casa a Triscina di Peppe Clemente, in uno scantinato dove ancora prima aveva trovato nascondiglio Francesco Messina Denaro, padre di Matteo.
Alla fine Calvaruso fu strangolato proprio da Matteo Messina Denaro, che affidò a Peppe Clemente e agli altri presenti il compito di bruciare vestiti, orologio e documenti. Tranne l’agenda, nel caso in cui il Milazzo, che era presente insieme ad altri alcamesi, fosse riuscito a cogliere informazioni. Dopodichè portarono il cadavere sulla spiaggia di Tre Fontane, lo coprirono di sterpaglie e lo bruciarono. Fu trovato quasi un anno dopo, con tutte le difficoltà di collegare ad un nome quel teschio e quella ventina di ossa.
Per quell’omicidio, finirono in carcere Leonardo Ciaccio (del gruppo di fuoco di Matteo Messina Denaro) e lo stesso Peppe Clemente (fratello di Nicolò). E quando Ciaccio era stato scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare, aveva contatto subito Nicolò Clemente, confidandogli la sua speranza di vedere cadere le accuse nel processo di Appello.
Inoltre quest’ultimo aveva riferito al fratello detenuto che Ciaccio gli aveva confidato di “sentirsi - si legge nelle carte - assolutamente frastornato dalla calorosa accoglienza che gli avevano riservato i suoi concittadini che, increduli, non riuscivano a trattenere il piacere di abbracciarlo ed esternargli tutto il loro apprezzamento e compiacimento, tanto da essere tentato di restare chiuso in casa per evitare tali esternazioni di solidarietà ‘anche da parte di quelle persone che non c’entrano’”.
In Appello però le cose per Ciaccio andarono male e nell’ottobre del 2002 gli diedero l’ergastolo.
A quel punto Peppe Clemente ebbe timore di beccarselo anche lui, essendo coimputato nello stesso omicidio. Ma il fratello Nicolò lo rassicurò: Giuseppe Grigoli gli avrebbe offerto assistenza legale tramite un bravo avvocato di Roma. Un’assistenza che sarebbe poi finita nel 2007, quando Grigoli (re dei supermercati) veniva arrestato a sua volta per mafia e poi condannato in via definitiva a 12 anni, nel 2011.
Nell’aprile del 2008 Peppe Clemente si è suicidato. Un suicidio strano, proprio quando aveva chiesto di andare agli arresti domiciliari ed era in attesa di una risposta dal tribunale di sorveglianza.
Il padre di Nicolò e Giuseppe era invece Domenico Clemente.
Nel 1981 aveva ceduto una casa al cognato di Bernardo Provenzano, per governare i terreni che quest’ultimo aveva acquistato nell’agro belicino. Domenico Clemente, su indicazione di Matteo Messina Denaro (una volta ricevute a sua volta indicazioni da parte di Provenzano, allora latitante), avrebbe dovuto vendere l’immobile una volta che il cognato di Provenzano avesse abbandonato Castelvetrano.
Domenico Clemente era cugino di un altro Giuseppe Clemente, classe 1927: boss mafioso castelvetranese, temuto e rispettato per decenni, oggi deceduto.
Condannato per mafia in via definitiva nel marzo del 1995, è stato uno dei più fidati “uomini d’onore” a disposizione di chi allora era il capo del mandamento di Castelvetrano: Francesco Messina Denaro, padre del latitante Matteo.
Ma il legame tra la famiglia Clemente e i Messina Denaro è rappresentato anche dalla “Enologica Castelseggio”. Si tratta di una società costituita nel 1980, che avrebbe dovuto occuparsi della produzione e del commercio del vino, ma che è stata confiscata nel 1995 in quanto “strumento di agevolazione delle famiglie mafiose di Castelvetrano e strumento per riciclare il denaro di provenienza delittuosa”. L’elenco dei soci, scrivono gli inquirenti, era del tutto sovrapponibile a quello dei rappresentanti delle famiglie mafiose di Castelvetrano. C’erano infatti: Giuseppe Clemente (il boss, classe 1927), Francesco Messina Denaro, Antonino Marotta, Saverio Furnari. Ed in seguito Paolo Marotta, nipote di Antonino.
Ed è grazie proprio all’intervento di Paolo Marotta, che Nicolò Clemente ha effettuato la fornitura del calcestruzzo in occasione dei lavori del cantiere “Vanico”, il centro riabilitativo fondato nel 1976 da Vito Li Causi (più volte sindaco della città), nonostante la fornitura fosse già stata affidata ad un altro imprenditore.
Inoltre, già nel lontano 2002, dopo gli arresti e le condanne di vari mafiosi di rango, come Salvatore Messina Denaro (fratello del boss latitante), Saverio Furnari, Nino Nastasi, ma anche di spietati killer come Leonardo Ciaccio e appunto Peppe Clemente, gli inquirenti avevano cominciato ad interessarsi proprio di Nicolò Clemente. Il sospetto era che appunto potesse essere tra i personaggi emergenti della nuova cosca di Matteo Messina Denaro.
Infatti, insieme a Giovanni Filardo e Rosario Firenze (già soci nella “Calcestruzzi Castelvetrano Srl”), in poco tempo si erano imposti nell’economia castelvetranese.
Ed infine non poteva passare certo inosservata una particolare assunzione alle dipendenze di Nicolò Clemente: quella di Vito Cappadonna, definito dagli investigatori “vivandiere di boss latitanti” che, insieme ad altri mafiosi aveva gestito la latitanza di Francesco Messina Denaro e del figlio Matteo.
Dopo l’espiazione della pena per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, proprio all’indomani della sua scarcerazione, Cappadonna (uomo di fiducia del superboss) ottenne l’immediata sistemazione lavorativa nella ditta di Nicolò Clemente.
Le due ditte “Calcestruzzi Castelvetrano” e “Clemente Costruzioni”, sequestrate nei giorni scorsi, sono sempre state punto di riferimento anche nelle forniture di lavori pubblici del comune di Castelvetrano. Un sistema che sembra sia stato mantenuto, a prescindere dall’avvicendarsi dei vari sindaci nel corso degli anni.
Egidio Morici