Quantcast
×
 
 
21/07/2018 06:00:00

La trattativa Stato-mafia accelerò la morte del giudice Paolo Borsellino

Sono cinquemila le pagine scritte per motivare la sentenza del processo sulla trattativa. Il deposito è avvenuto a 90 giorni dalla lettura del dispositivo e nel giorno del ventiseiesimo anniversario della strage di via D'Amelio. 

I giudici con le motivazioni, non solo confermano che la trattativa c'è stata e il patto scellerato tra pezzi dello Stato e Cosa nostra sia stato siglato, ma dicono di più, affermano che sia stata una delle cause che portò all'accelerazione della morte di Borsellino e degli agenti di scorta. Questo è emerso dal duro dispositivo della Corte d'assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, pronunciato nell'aula bunker del Pagliarelli al termine di oltre quattro giorni di camera di consiglio.

ACCELERAZIONE DELLA STRAGE DI VIA D'AMELIO -"L'unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l'organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo - ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci - pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via d'Amelio". E' con queste parole che i giudici  spiegano i motivi che portarono a "l'improvvisa accelerazione che ebbe l'esecuzione di Borsellino".

Vito Ciancimino entrò in contatto con gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno all'indomani della strage di Capaci e, secondo i giudici, "non v'è dubbio, che quei contatti unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l'avvicendamento di quel ministro dell'Interno che si era particolarmente speso nell'azione di contrasto alle mafie, in assenza di plausibili pubbliche spiegazioni) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Salvatore Riina già come forieri di sviluppi positivi per l'organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato".

Il Presidente Montalto e il giudice a latere Stefania Brambille nelle motivazioni della sentenza scrivono inoltre "ove non si volesse prevenire alla conclusione dell'accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla trattativa, conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, in ogni caso non c'è dubbio che quell'invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l'effetto dell'accelerazione dell'omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell'ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d'Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo".

LE CONDANNE - Dopo cinque anni di udienze il processo sulla trattativa, che si è concluso lo scorso 20 aprile, ha visto le condanne a dodici anni per gli ex generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, dodici anni per l’ex senatore Marcello Dell’Utri, 8 anni per l’ex colonnello Giuseppe De Donno. E poi, ventottoanni per il boss Leoluca Bagarella. Nei loro confronti l'accusa era di "attentato o minaccia a corpo politico dello Stato". Nel procedimento è stato assolto l’ex ministro Nicola Mancino, “perché il fatto non sussiste”, dall'accusa di falsa testimonianza mentre Massimo Ciancimino, il supertestimone del processo, è stato condannato a 8 anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Il figlio di don Vito, diversamente, era stato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.

L’ESTREMA GRAVITA' DEI FATTI - Per spiegare “la gravità dei fatti ricondotti alla fattispecie criminosa per la quale va riconosciuta la responsabilità penale degli imputati condannati” i giudici entrano nel dettaglio. Per farlo focalizzano il fattore temporale e cioè quando si è realizzata questa trattativa Stato-mafia: “all'indomani di una delle più gravi stragi della storia della Repubblica, qual è stata quella di Capaci, e mentre venivano reiterate non meno gravi stragi (da quella di via D'Amelio sino a quelle del 1993, senza dimenticare il tentativo dello stadio Olimpico di Roma che, se fosse riuscito, avrebbe verosimilmente messo definitivamente in ginocchio le Istituzioni), sia per le complessive modalità dell'azione tipiche del ricatto mafioso elevato qui, però, all'ennesima potenza”. Non ha alcuna remora la Corte d'Assise quando evidenzia il “danno” e il “pericolo” che questa trattativa ha comportato alle Istituzioni “sia per le materiali conseguenze che ne sono derivate (non solo le stragi, ma anche gli innumerevoli attentati omicidiari che hanno caratterizzato il biennio 1992-1994 tutti collegati, a vario titolo, alla strategia mafiosa che, parallelamente alla minaccia, mirava ad ottenere il cedimento dello Stato), sia per la compromissione del funzionamento delle più alte Istituzioni preposte alla vita democratica del Paese fortemente influenzate dall'incombente minaccia mafiosa”.

MARCELLO DELL'UTRI - "Con l'apertura alle esigenze dell'associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell'Utri nella sua funzione di intermediario dell'imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992". Così scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza che ha condannato l'ex senatore FI Marcello Dell'Utri, cofondatore del partito di Berlusconi, per violenza e minaccia aggravata a corpo politico dello Stato.

Gli incontri con Mangano
Rilevanti, secondo i giudici palermitani, gli incontri tra Mangano e Dell'Utri “in almeno due occasioni (la prima tra giugno e luglio 1994 e la seconda nel dicembre 1994) per sollecitare l'adempimento degli impegni presi durante la campagna elettorale, ricevendo, in entrambe le occasioni, ampie e concrete rassicurazioni”.

Dell'Utri ebbe a riferire a Mangano 'in anteprima' di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia (“Per quanto riguardava il 41 bis, per quanto riguarda l'arresto sul 41 bis c'era stata una piccola modifica...”)” che “sarebbe stata inserita nel testo di un decreto legge che di lì a poco sarebbe stato approvato dai Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi”.

Il fatto che, evidenziano i giudici, Dell'Utri riferì l'episodio a Manganoper provare il rispetto dell'impegno assunto con i mafiosi, dimostra ulteriormente che egli stesso continuava a informare Berlusconi di tutti i suoi contatti con i mafiosi medesimi anche dopo l'insediamento del Governo” dell'ex cavaliere, dato che “soltanto Berlusconi, quale Presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo quale quello che fu tentato con l'approvazione del decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440 e, quindi, riferirne a Dell'Utri per 'tranquillizzare' i suoi interlocutori, così come il Dell'Utri effettivamente fece”. Ed è confermato come lo stesso Berlusconi, aggiungono i giudici “venne a conoscenza della minaccia” insita nei “tentativi di pressione” e “del conseguente pericolo di reazioni stragiste (d'altronde in precedenza espressamente già prospettato) che un'inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto far insorgere”.

Viene inoltre ricordato che “è sufficiente che la minaccia sia stata percepita dal soggetto passivo” e “non occorre affatto che il predetto effetto si verifichi in concreto” essendo “il bene tutelato dalla norma penale quello della integrità psichica e della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo”. esclusione di un ruolo di Dell'Utri nelle vicende che, ad iniziare dal 1992, diedero luogo alla minaccia mafiosa in danno dei governi in carica precedentemente a quello poi presieduto da Silvio Berlusconi dal maggio 1994” soltanto “nella seconda metà del 1993” i boss di Cosa nostra “ritennero utile servirsi di Marcello Dell'Utri per ottenere i benefici per gli associati”. Un'azione, si legge dalle motivazioni, “prima parallelamente al tentativo di dare luogo ad una propria formazione politica nella quale collocare direttamente soggetti che potessero rappresentare gli interessi di cosa nostra” e poi, infine, sfruttando “la nuova forza che si accingeva a debuttare nel panorama politico nazionale per iniziativa di Silvio Berlusconi”.

CONSAPEVOLEZZA DELLO SPESSORE MAFIOSO DI MANGANO - “Sia Dell'Utri, sia Berlusconi cui erano rivolte le richieste, ben conoscevano lo spessore mafioso di Vittorio Mangano” e ciò “induce a non dubitare” che “l'approccio del Mangano (…) non possa che essere stato percepito dal proprio interlocutore come una forma di pressione inevitabilmente esercitata sotto la minaccia di possibili ritorsioni”. “Della conseguente implicita minaccia, dunque – scrivono ancora i giudici – devono ritenersi responsabili, tanto gli autori in senso stretto individuabili nei mafiosi dai quali promanava la 'pressione', quanto, a titolo di concorso, colui, Dell'Utri, che anche in questo caso come nel caso delle richieste dei pagamenti di denaro e dei relativi versamenti, ha svolto la funzione di intermediario verso il Capo del Governo Silvio Berlusconi”. E questo a fronte di un “ruolo di intermediario tra gli interessi di cosa nostra e gli interessi di Berlusconi svolto con continuità da Dell'Utri incontestabilmente” e già sancito dalla condanna definitiva per l'ex senatore a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Sul punto i giudici sottolineano come dato che “tali pagamenti sono proseguiti almeno fino al dicembre 1994” si ha quindi “la prova che Dell'Utri interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994) nel quale incontrava Vittorio Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative che i mafiosi attendevano dal Governo”.