La strage di Via D'Amelio/4. L’isolamento di Paolo Borsellino e la strage
Si conclude oggi l'inchiesta in quattro parti di Tp24.it sul depistaggio delle indagini sulla strage di Via D'Amelio.
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Come si arriva alla decisione di eliminare Paolo Borsellino?
E perché così in fretta rispetto alla strage di Capaci?
Le motivazioni della sentenza Borsellino Quater riportano il contributo del collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, uno dei fedelissimi di Bernardo Provenzano.
E’ lui che, già nel 2012, spiega che “come è vero che Falcone e Borsellino avevano giurato lotta alla mafia, è altrettanto vero che Cosa Nostra aveva giurato vendetta contro Borsellino e Falcone”.
Anche “il previsto esito del maxiprocesso in senso sfavorevole all’associazione mafiosa” avrebbe fatto la sua parte nello scatenare, secondo Giuffrè, “la guerra contro la politica e i politici per un verso e la magistratura per l’altro verso”.
Il pentito però, precisa che prima della strategia stragista, erano stati effettuati “sondaggi con persone importanti” del mondo economico e politico.
Paolo Borsellino era diventato troppo pericoloso non solo per la mafia, ma anche per gli ambienti imprenditoriali e politici che con Cosa nostra convivevano facendo affari. Interessi comuni che riguardavano anche gli ambienti delle professioni, dei servizi segreti deviati e della stessa magistratura. Inoltre, ai politici sostenuti dalla mafia, veniva richiesto l’apporto su temi “caldi” come l’ergastolo, il 41 bis o il sequestro dei beni.
Ma tra le cause delle stragi del 1992, Giuffrè include anche le indagini allora in corso sugli appalti: “Lo stesso dottore Borsellino aveva le idee abbastanza chiare, poi, dopo il discorso dell'uccisione del dottore Falcone, c'è stato qualche impulso che ha accelerato la sua fine”.
E sul perché dell’accelerazione dell’attentato di via D’Amelio, parla della collaborazione con la giustizia da parte di Gaspare Mutolo.
Senza dimenticare che il “pericolo” nasceva anche dalla possibilità che Borsellino fosse nominato Procuratore Nazionale Antimafia. Quando, nel gennaio del 1992, il magistrato aveva ricoperto il ruolo di Procuratore della Repubblica al Tribunale di Palermo, mentre nascevano le Direzioni Distrettuali Antimafia (D.D.A.), all’interno di Cosa nostra il trasferimento era stato percepito con preoccupazione.
Angelo Siino, ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, da collaboratore di giustizia riferisce i commenti di Pino Lipari (consigliori del capomafia Bernardo Provenzano e amministratore dei beni dei corleonesi) secondo cui l’arrivo di Borsellino avrebbe certamente creato delle difficoltà a “quel santo cristiano di Giammanco”.
Pietro Giammanco era il procuratore “con il quale già Giovanni Falcone aveva avuto contrasti ed incomprensioni dal punto di vista professionale – scrivono i giudici - che lo avevano determinato ad accettare il nuovo incarico propostogli dal ministro della Giustizia Claudio Martelli”.
E a Borsellino, Giammanco affida la delega delle indagini solo per la province di Trapani ed Agrigento, cercando di affidare la collaborazione del pentito Gaspare Mutolo all’altro procuratore aggiunto di quell’ufficio, Vittorio Aliquò. E questo, nonostante lo stesso Mutolo avesse manifestato la volontà di parlare solo con Borsellino, l’unico di cui si fidava. Giammanco cambiò idea solo per l’insistenza dello stesso Aliquò, che invece aveva compreso la delicatezza di quella collaborazione.
Inspiegabilmente, la delega per le inchieste di mafia su Palermo arriva più tardi, con una telefonata di Giammanco alle sette e mezzo del mattino di una domenica mattina: la domenica del 19 luglio 1992.
Agnese Piraino, moglie di Paolo Borsellino, nel 2010 spiega al Pubblico Ministero: “Giammanco, ha telefonato alle 7 e 30 del mattino, (…) dicendo che dava la delega a Paolo a Luglio, per (…) interessarsi dei processi di mafia riguardante il territorio di Palermo e provincia, ma era già troppo tardi, perché già avevano deciso di farlo fuori”.
E nel 2014, Ignazio de Francisci, allora procuratore a Palermo e amico di Falcone e Borsellino, racconta di avere incontrato il magistrato nella stanza del procuratore Giammanco, il 18 luglio 1992. E mentre quest’ultimo risponde ad una telefonata, Borsellino confida a De Francisci che il collaborante Gaspare Mutolo gli avrebbe fatto delle importanti rivelazioni e in particolare “gli aveva anticipato che avrebbe parlato del dottore Contrada e del collega Mimmo Signorino”.
Perché Giammanco ha aspettato fino alle sette e mezzo del giorno successivo per comunicare a Borsellino la decisione di affidargli le deleghe per le indagini di mafia nel palermitano?
Perché soltanto 10 ore prima dell’esplosione di via D’Amelio?
Borsellino, circa un mese prima, in occasione di una commemorazione di Falcone a Casa Professa aveva dichiarato: “In questo momento inoltre, oltre a magistrato, io sono testimone, sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto degli elementi probatori che porto dentro di me, io debbo per prima cosa rappresentarli
all’autorità giudiziaria che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so, non che io penso, che io so, possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che pose fine alla vita di Giovanni Falcone”.
Parole che non potevano che preoccupare Cosa nostra che, dopo aver appreso in seguito anche della collaborazione di Mutolo, comincia a temere una sorta di nuovo maxiprocesso.
Ma Borsellino si era interessato anche del collegamento tra mafia e appalti, convinto che potesse rappresentare uno dei motivi principali della strage di Capaci. Lo conferma, tra i magistrati dell’epoca, anche Antonio Di Pietro. Durante i funerali di Falcone, Borsellino gli aveva manifestato la piena convinzione “che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione”.
Un progetto che Borsellino stava per realizzare, avendone parlato anche con Mori e De Donno.
Le dichiarazioni di Brusca e Siino, hanno poi confermato i rapporti creati da Cosa nostra con ambienti politici ed imprenditoriali per la gestione degli appalti pubblici.
In quel momento, l’interesse di Borsellino per quel tipo di indagini, insieme all’incarico che ricopriva nell’Ufficio titolare dell’inchiesta e, soprattutto, insieme alla prospettiva dell’incarico alla Procura nazionale, la cui candidatura era stata proposta pubblicamente, facevano apparire a Cosa nostra “quanto mai opportuna la realizzazione dell’attentato a quel magistrato subito dopo quello a Falcone”.
Ma la solitudine che precede l’eliminazione di Paolo Borsellino, ha tante facce. Maligne e inquietanti.
Una di queste facce viene raccontata da Gioacchino Natoli, che faceva parte del pool antimafia di Palermo, insieme a Falcone e Borsellino: “Aveva interrotto ad un certo punto l'interrogatorio di Gaspare Mutolo perché era stato richiesto di andare al Ministero dell'Interno, dove quella mattina si insediava il Ministro Mancino. Ad un certo punto, ad un certo punto di questa... di questa mattinata, Paolo Borsellino era stato fatto accomodare in un... in un salotto, in attesa, appunto, che il Ministro Mancino si liberasse, stava fumando, come era solito fare, nervosamente, allorché vide aprirsi una porta di questo... di questo salotto nel quale era stato fatto accomodare e gli apparve, così si affacciò con... con la testa, il dottor Bruno Contrada e dietro di lui l'allora Capo della Polizia Parisi. Il Contrada lo... lo salutò, Paolo Borsellino si meravigliò non poco di vedere il dottore... il dottore Contrada, e scambiarono qualche parola di saluto e, nell'allontanarsi, il dottore Contrada ebbe a dirgli: ‘So che ha incontrato Gaspare Mutolo. Ricordi, se le dovesse tornare utile, che io in passato mi sono occupato di Gaspare Mutolo. Se ha bisogno di notizie, può rivolgersi a me’”.
Una cosa che, aggiunge Natoli, “lo aveva fatto saltare in aria e lo aveva mandato su tutte le furie”.
Il dirigente del Sisde sapeva quindi della collaborazione di Mutolo, le cui importanti rivelazioni avrebbero riguardato proprio Contrada.
Tra le cose che racconta la moglie Agnese, c’è anche la delusione di Borsellino provata per il generale Subranni: “Mi disse che era ‘punciutu’ (affiliato a Cosa nostra, ndr)’. Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito, ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Mi disse, comunque, che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l'Arma dei Carabinieri era intoccabile”.
Anche nell’incontro all’aeroporto diFiumicino avvenuto il 28 giugno 1992, con l’onorevole Salvo Andò e la dottoressa Liliana Ferraro (collaboratrice di Falcone e amica di Borsellino), i cupi contorni della solitudine si delineano ulteriormente.
Andò racconta ai giudici: “Vidi in aeroporto, a Roma, Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci. Ci appartammo per parlare e io gli accennai alla nota del capo della polizia Parisi in cui si parlava di un rischio di attentati ai nostri danni. Lui, meravigliato, mi disse di non essere stato informato della vicenda”.
La dottoressa Ferraro, a sua volta, riferisce che “nel corso dell’incontro presso l’aeroporto di
Fiumicino, parlò al Dott. Borsellino di quanto le aveva riferito, in un colloquio svoltosi alcuni giorni prima, il capitano De Donno, in servizio presso il ROS dei Carabinieri. L’ufficiale, infatti, le aveva comunicato che aveva preso, o stava per prendere, contatti con Massimo Ciancimino, allo scopo di verificare se fosse possibile ottenere una collaborazione con la giustizia del padre, Vito Ciancimino, per fermare lo stragismo, e le aveva domandato se non fosse opportuno avvertire il Ministro della Giustizia, Claudio Martelli, per avere la condivisione politica da parte sua; la Dott.ssa Ferraro aveva risposto che non riteneva necessario un sostegno politico a questa iniziativa, si era impegnata a riferirne al Ministro Martelli, e aveva segnalato all’ufficiale l’opportunità di parlarne immediatamente con il Dott. Borsellino, con il quale lei stessa avrebbe conferito il più presto possibile.”
Era l’avvio della cosiddetta trattativa. Borsellino però non ne sapeva niente. Giammanco non gli aveva fatto nemmeno una telefonata.
Una solitudine che si accentua sempre di più, mentre ci si avvicina a quel 19 luglio.
Fatta di rabbia, tristezze, delusioni.
E la testimonianza della sua collega Alessandra Camassa, fornisce un quadro ancora più inquietante su una circostanza singolare, verificatasi verso la fine di giugno, quando insieme al collega Massimo Russo, incontrano Borsellino nella sua stanza.
“A un certo punto, abbastanza inaspettatamente, il dottore Borsellino si alza e si va a sedere sulla poltrona, che era messa nell'altra... nell'altro muro, e tra l'altro non si limita a sedersi, mette i piedi anche sulla poltrona, si distende quasi, quasi completamente, e sempre molto inaspettatamente comincia a... non proprio a piangere e a singhiozzare, ma comi... gli escono delle lacrime e comincia a dire: ‘Non... non avrei mai creduto, non posso credere, non posso credere che un amico
mi abbia potuto tradire, non posso credere che un amico mi abbia tradito’”.
Massimo Russo ha confermato l’episodio, aggiungendo che in quell’occasione Borsellino, parlando della Procura di Palermo, disse: “qui è un nido di vipere”.
Quella maledetta domenica, in via D’Amelio, la 126 imbottita d’esplosivo si trovava parcheggiata insieme a tante altre. Da tempo, Borsellino andava a trovare la madre ogni domenica. Il personale di tutela aveva segnalato più volte l’esigenza di una zona rimozione. Ma niente da fare.
“Faccio una corsa contro il tempo – diceva alla moglie Agnese – devo lavorare tantissimo e se mi fanno arrivare… Io ho capito tutto della morte di Giovanni”.
“Si muore generalmente perché si è soli – scriveva Falcone - o perché si è entrati in un gioco troppo grande”.
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