Per la prima volta, nero su bianco, la sentenza Borsellino Quater certifica quello che è stato il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. Anche se non è un punto di arrivo, è un risultato soddisfacente?
Tengo molto a questa sentenza, dove io ero parte civile nel processo. Avevamo chiesto l’assoluzione di Scarantino, che riteniamo una vittima, visto che era stato sottoposto a torture fisiche e psicologiche per costringerlo a dichiarare il falso. La sentenza ha però un significato molto più ampio, nel senso che viene assodato che è stato messo in piedi un depistaggio di Stato, ma la cosa più importante è che per farlo sono stati adoperati elementi di verità messi in bocca ad un falso pentito, che potevano essere noti solo a chi aveva partecipato alla strage. Oppure a chi aveva un contatto diretto con una fonte che aveva partecipato alla strage. Chi poteva conoscere i dettagli sul furto della 126, sulla sostituzione delle targhe? Insomma, gli elementi che avrebbero potuto essere adoperati per arrivare alla verità, sono stati invece adoperati per allontanarla. Ma è rilevante anche il fatto che dei magistrati, nei primi due processi, abbiano avallato un depistaggio che era evidente a tutti, rendendosi complici del depistaggio stesso. E su questo bisognerebbe che il Csm andasse a fondo sul perché questi magistrati, non solo Tinebra, ma anche Petralia e Palma, l’abbiano avallato.
Ai nomi che lei ha fatto, Fiammetta Borsellino ha aggiunto anche quello di Nino Di Matteo, che ha scatenato diverse polemiche. Qual è la sua posizione?
Non condivido queste accuse. Di Matteo all’epoca era soltanto un giovane uditore. Il fatto che Fiammetta abbia parlato anche di lui, ha fatto sì che gli organi di stampa estrapolassero quest’accusa, rispetto alle invocazioni di responsabilità molto più ampie che Fiammetta ha portato avanti. E che io condivido pienamente. Come per esempio il fatto che sarebbe bene sottrarre alla procura di Caltanissetta le indagini su via D’Amelio, visto che si è dimostrata inaffidabile, passandole alla procura di Catania.
Come commenta invece la sentenza sulla Trattativa?
Quello di Palermo, sull’attentato al corpo politico dello Stato, che comunemente viene chiamato “il processo sulla trattativa”, è altrettanto significativo. Da anni sostengo che mio fratello sia stato ucciso per permettere una scellerata trattativa tra la mafia e pezzi deviati dello Stato. Grazie alla sentenza di Palermo, la trattativa non potrà più essere chiamata “presunta”. Per me è molto importante, visto che per anni ho dovuto subire attacchi anche da parte di pezzi della magistratura. 10 anni fa avevo scritto una lettera aperta, “19 luglio 1992, una strage di Stato”, dove appunto sostenevo che la trattativa era stata la causa scatenante della Strage di via D’Amelio. E’ importante che la sentenza di Caltanissetta abbia messo in evidenza che sulla sparizione dell’agenda rossa non si sia indagato a fondo. Non solo, ma che quel depistaggio sia direttamente collegato a quella sparizione. Diversamente non sarebbe servito a nulla. C’erano evidentemente più funzionari dei servizi segreti che nei pressi di via D’Amelio aspettavano l’esplosione per poi impossessarsi di quell’agenda. E anche su questo bisognerebbe andare a fondo.
In qualche modo però, la sentenza del Borsellino Quater è stata difforme alla linea che avevano portato avanti i Pm. Io ho seguito molte udienze e, ad un certo punto, ho avuto l’impressione che gli imputati fossimo io ed il mio avvocato.
Pensa che comunque queste due sentenze, di Palermo e Caltanissetta, riusciranno a risvegliare quell’indignazione siciliana scoppiata subito dopo la morte di Falcone ed affievolitasi nel corso degli anni?
Sono sentenze che rappresentano una svolta, indicando nuove strade da percorrere. Che però potrebbero essere comunque irte di difficoltà, come è successo fino ad oggi. Noi combatteremo fino alla fine, perché si arrivi alla verità.
Da anni però i palermitani in via D’Amelio per il 19 luglio sono sempre meno. Ci sono invece tantissime presenze di persone che arrivano da oltre lo stretto. Perché?
Sì, sono persone che arrivano da ogni parte d’Italia, che a volte chiedono permessi per assentarsi dal lavoro. E’ una cosa molto bella, che mi ha aiutato molto nel corso di questi dieci anni.
Forse i palermitani sono troppo assuefatti per le troppe ferite che hanno subito sulla loro pelle, al punto da non riuscire a sentire appieno l’importanza di queste giornate, in cui si manifesta per chiedere verità e giustizia. Queste non arrivano mai da sole. Occorre sempre un impegno costante e la memoria ha senso solo se accompagnata dalla pretesa della verità.
Che cos’è “La Casa di Paolo”?
Ho voluto che la vecchia farmacia di famiglia del quartiere Kalsa, dove Paolo ed io siamo cresciuti, venisse sottratta allo stato di abbandono in cui si trovava, ritornando ad essere un posto dove la gente potesse tornare a trovare l’amore di Paolo per la sua città. E’ diventata “La Casa di Paolo”, una casa di accoglienza nella quale cerchiamo di dare ai ragazzi di questo quartiere un’alternativa che possa metterli al riparo dal rischio dell’emarginazione e dalla povertà, anticamere della criminalità. Il quartiere l’ha accolta bene, abbiamo percepito quel rispetto che ci fa ben sperare per il futuro.
Egidio Morici