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01/05/2018 08:26:00

“Alan e il mare”: l’apocalissi di Federico e Michele all’Impero di Marsala

di Francesco Mercadante.  Una prestazione dionisiaca, un servigio benefico reso alla comunità dei fruitori, un monito per i disertori: Federico Brugnone, in una domenica come tante altre, presso il teatro Impero, s’è fatto Dioniso, servitore e profeta. L’opportunità è stata quella di Alan e il mare, un’opera scritta e diretta da Giuliano Scarpinato.Le regole della buona critica documentaria c’imporrebbero, a questo punto, di descrivere i contenuti dell’opera e fare ampio uso di aggettivi a lode e gloria dell’intera messinscena, ma ciò causerebbe uno snaturamento della realtà teatrale.

Se un bambino siriano muore da profugo, a causa d’una burrasca che ne avvolge l’imbarcazione, in fuga dalla miseria, e qualcuno decide di narrarne e rappresentarne la storia, allora la scrittura deve condurci a ciò che lo sguardo non trattiene, a ciò che l’immaginazione non è in grado di produrre. Il testo, tuttavia, era debole, mieloso, mancava di letterarietà e autonomia, cosicché, se non ci fosse stato ‘quel’ protagonista, quel personaggio divino e apocalittico che abbiamo menzionato in apertura, adesso saremmo in imbarazzo.

Dunque: bisogna parlare del senso delle cose, delle azioni e non più dei buoni propositi, che di certo non revochiamo in dubbio. È doveroso scrivere di colui che, con una potenza omerico-iliadica indefettibile, non s’è limitato a recitare, ma è stato il teatro: Federico Brugnone ha incarnato in poco più d’un’ora alcune figure emblematiche della recitazione: da Charlie Chaplin a Carmelo Bene, attraverso Buster Keaton, i quali gli sono stati allato sul proscenio, non altrimenti che se confermassero la sua ubiquitaria identità. Ha borbottato con eleganza poetica, ha canticchiato con dignità gregoriana, ha illustrato una trama con sapienza ecumenica.

Noi sappiamo per certo che, da circa mezzo secolo, la Siria è vessata e insanguinata e siamo pure informati che la sorte di Alan Kurdi è simile a quella di parecchi altri bambini profughi: il rinvenimento del suo piccolo cadavere sulla spiaggia di Bodrum ne ha solo cambiato l’effetto giornalistico. A noi è stato concesso di partecipare a una scoperta. Non a caso, s’è parlato di opportunità. Chi ha visto lo spettacolo s’è trovato a misurarsi con qualcosa che non ci si poteva aspettare, ovverosia un Federico prevaricatore, talmente bravo da surclassare la scena, che pure è stata ricca di giochi fiabeschi e para-disneyani. Perché allora – insistiamo – dovremmo ‘recensire’ qualcosa, se siamo in presenza di un epifenomeno, uno shock indifferenziato e puro? Non abbiamo la smania delle citazioni, ma è inevitabile pensare a Husserl e alla sua epoché, in nome della quale osservare questo giovane teatrante significa mettere tra parentesi tutto il resto.

Corre voce secondo cui, durante ogni interpretazione di Alan e il mare, egli perda addirittura due chili di peso corporeo: non abbiamo fonti scientifiche e non siamo esperti in merito, anzi non vogliamo neppure fare una verifica di pertinenza, perché il lettore deve sapere che l’aneddoto in questione, foss’anche mera metafora, sarebbe molto attinente e appropriato. Il testo s’intola Alan e il mare, ma, se fosse stato intitolato Federico e il mare, non si sarebbe commesso alcun errore di metodo; la vicenda si sarebbe materializzata lo stesso davanti a noi.

A far coppia con Federico c’era Michele Degirolamo, un altro campione della scena, giovane, ma temprato e in possesso di un repertorio raffinato: prossemica, cinestetica, modulazioni sonore et similia sono alcune delle qualità che lo hanno connotato fin dalle prime battute. Interprete autentico della grecità arcaico-oceanina, Michele è stato un attore danzante, capace di ‘ribattezzare’ il tema della morte in una sonorità che abbiamo superbamente percepita e vissuta grazie all’Ondine del Gaspard de la nuit di Maurice Ravel, in cui una ninfa lacustre guida l’ascoltatore all’esplorazione della profondità delle acque.

Alla regia di Giuliano Scarpinato occorre riconoscere un grande merito, cioè quello di aver esaltato dei talenti, mostrando una tecnica di configurazione delle idee che ricorda molto le origini medievali della fiaba e del ludus giullaresco. A sottendere la sventura dell’ineluttabilità, infatti, giungeva in platea una leggerezza inspiegabile, quasi fosse un moto di speranza indicibile e presente, qualcosa che, sconfitto dalla logica, resiste e si fa accogliere.

In conclusione, ci tocca dire, per dovere umano e intellettuale, che di certo non è questa la nostra ‘idea’ di teatro; il teatro dovrebbe originarsi dal testo, lasciarsi interpretare, non rinviare tutto al riscatto attoriale: troppi giochi ‘immaginifici’ ed effetti da varietà, troppo poca letteratura.
Per fortuna c’erano loro: Federico e Michele.

 



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