Sed contra: piccola replica alle righe di Leonardo Agate sull’opera di Vito Libero Linares
di Gabriele Civello Linares
Premetto, senza infingimenti, di essere il nipote di Vito Libero Linares, il quale si è approssimato alla Gioia di lassù il 30 settembre 2017.
Premetto anche – mi sia consentito – che è profonda e ben piantata la mia conoscenza delle opere e del pensiero di Vito, dalle tele dei primi anni ’60 sino al capolavoro Io Eros, al quale Egli stesso appose la temeraria data del… 2030 (cfr. pag. 84 del catalogo monografico); e ancora: dalle Sue conferenze d’arte e di estetica, battute all’immancabile “Olivetti – Lettera 22”, sino alle numerose poesie, alcune delle quali Vito generosamente incastonò nel nostro quasi ventennale scambio epistolare.
Viceversa, confesso che la mia conoscenza del Caravaggio e, ancor più, del “caravaggismo” si arresta alla frontiera dei fascicoletti “Arte Dossier” (Giunti editore); per intendersi, quegli opuscoli di trenta o quaranta pagine che si acquistano per quattro euro e 90 cent in libreria, in edicola o anche, soffocati in un polveroso cellophane, nelle stazioni ferroviarie e marittime della penisola.
Ho letto con attenzione le righe del dott. Leonardo Agate, delle quali mi ha subito colpito un primo particolare: il loro Autore prende a pretesto la recente mostra sul “Caravaggismo” (presso la Chiesa di San Pietro di Marsala) per stilare, in realtà, ultra petita tutt’altra ed eccentrica critica nei confronti dell’artista Vito Linares (come accade quando, a volte, si ìmputa alla fetta di melone ghiacciato l’indigestione di una previa cena luculliana). In questo – mi concedo un modesto calembour – il dott. Agate non mi pare si sia dimostrato veramente “agathós”, come il Suo antico nome greco ci avrebbe suggerito.
Sicuramente, Vito avrebbe replicato alle righe del dott. Agate in modo completamente diverso dal mio, e cioè col suo celeberrimo taglio sardonico e bruciante, o forse non avrebbe replicato affatto al “Battibecco” in questione (così si chiama la rubrica on–line di TP24); ma non me ne vorrà il paziente lettore se scriverò io un mio “sed contra”, come prevedeva l’antica Quaestio disputata.
Credo anzitutto che il dott. Agate abbia completamente equivocato quanto Vito Linares gli avrebbe detto in occasione della sua mostra “Il rosso che avanza” (Chiesa di San Pietro, 2012), e cioè che, nel predisporre questa “personale”, Vito si sarebbe ispirato all’opera di Caravaggio.
Ebbene, nel suo enfatico stupore il dott. Agate purtroppo dimentica che, per Linares, la “ispirazione artistica” non era come l’insufflazione di un gas inerte dentro il coccio di un vetraio, o come la conservazione di un ortaggio nell’angusto abitacolo di un sottolio. Per Lui “ispirazione” era tutt’altro, era contaminazione, decomposizione, fermentazione e, poi, distillazione: il suo zucchero grezzo, sapientemente selezionato e manipolato, si trasformava in alcool, e l’alcool si trasformava in acido. Dall’acido, poi, si dipartivano a raggiera mille e altre misteriose reazioni estetiche, incontrollate e incontrollabili, che portavano alla dulcedo di altri, nuovi, “zuccheri”. E così via.
Se, dunque, ne “Il rosso che avanza” (2012) di Linares il nostro insigne contraddittóre non intravvide la Canestra di frutta o la Madonna dei palafrenieri del Caravaggio, o comunque non fu in grado di scorgere uno stile minimamente riconducibile al Merisi o ai suoi epigoni, di ciò non avrebbe dovuto sorprendersi, se solo avesse egli ricordato quale concezione dell’ispirazione artistica aveva, in cuor suo, Vito Linares.
Cercando, allora, di immaginare una possibile risposta allo spaesato interrogativo del dott. Agate (“Ma come fa Vito a riferirsi a Caravaggio, se questi quadri astrattisti [sic: n.d.r.] ne sono agli antipodi?”), suggerisco ora due piccoli sentieri.
Il primo consiste nella paziente visione, sul sito internet YouTube, di una lunga intervista (circa 45 min.) rilasciata dal pittore, mi pare nel 2008, per una emittente televisiva locale (TeleSud, “Babele” di Enzo Tartamella), ove Egli tra le varie cose disse: “Il neo–classicismo è stato una disgrazia; ma anche Raffaello è stato un grande disgrazia, perché poi vengono fuori gli allievi, gli allievi degli allievi, il manierismo, il dipingere alla maniera di…”.
Ecco allora che, se Linares si ispirò veramente all’opera del Caravaggio, non lo fece certo per adeguarvisi manieristicamente o emulativamente, ma sempre seguendo la propria idea di “ispirazione artistica”, intesa come de–costruzione presente di una realtà passata, per il coraggioso perseguimento di una realtà futura.
La seconda via per superare il vicolo cieco in cui si è introdotto il dott. Agate potrebbe consistere nella lettura delle “Vite de’ pittori” (1642) di Giovanni Baglione (1573 ca.–1644), nella quale – come ho potuto leggere nel menzionato “Arte Dossier” della Giunti – si dice che, ai tempi del Caravaggio, “presso alcuni si stima[va], haver esso [il Caravaggio: n.d.r.] rovinato la pittura”.
A fronte di ciò, e cioè di tutte le critiche che il Caravaggio si era attirato in corso di vita, mi sia permesso dire che il dott. Agate cade nell’ingenuo errore di guardare l’opera del Merisi con gli occhi dell’oggi, occhi ai quali il Caravaggio appare (inevitabilmente) come un “classico”, un monumento storico alla perfezione e all’armonia figurativa, al cui confronto le originali creazioni di un Linares – per usare una metafora musicale – gli “suonano” da un lato remotissime e, dall’altro lato, cacofoniche.
Ebbene, l’unico modo per superare queste trappole diffuse e latenti, che ci inducono nella tentazione di mettere in un unico calderone tutti i cosiddetti “classici” del nostro passato, facendoci così smarrire la loro originalità rivoluzionaria (in allora), dobbiamo dunque ribaltare la clessidra, e cercare di vedere Caravaggio… con gli occhi di un suo contemporaneo cinque–secentesco. Ecco allora, così facendo, che trasalimento! Che grande bocca aperta apparirebbe sul nostro volto! In questo modo, infatti, ci si svelerebbe subito una verità potentissima, e cioè che tanto Caravaggio quanto Linares – pur nei loro diversi mondi ed epoche – hanno “sfidato” la storia dell’arte, ruminandone le particelle più indigeste e, alla fine, facendo da esse germinare un fiore completamente nuovo. Entrambi – siamo volutamente provocatori – Caravaggio e Linares, furono degli “astrattisti”, nel senso che, scavando nella realtà della vita e della natura, ne astrassero poi un messaggio, una verità o anche solo un grande punto interrogativo, mai prima di loro avanzato o proposto.
Per usare metaforicamente alcuni termini matematici, a fronte della frase detta da Linares al dott. Agate, sarebbe stato necessario analizzare, come a scuola, la seguente proporzione: “Caravaggio sta ai pittori che lo precedettero come Vito Linares sta al Caravaggio”; proporzione nella quale ciò che rileva non è se Linares sia identico o simile a Caravaggio, ma se il rapporto che costoro intrattengono reciprocamente sia o meno analogo al rapporto che il Caravaggio intrattenne, a propria volta, con la tradizione (di allora).
Invece, la “proposizione matematica” che il dott. Agate – errando – costruisce, è destinata a non funzionare proprio perché egli pone “Linares” e “Caravaggio” all’interno di una semplice equazione, un giudizio di identità o (per traslato) di somiglianza, confrontando i due artisti meccanicamente tra loro, senza la mediazione di un tertium genus, così perdendo la vera forza dell’analogia, che, come dimostrato dalla filosofia scolastica medievale, non è identità o similitudine bensì adeguata proporzione.
Solo emendando il proprio grave errore “matematico” (cioè logico, prima ancora che estetico), il dott. Agate potrebbe non vedere più, nelle tele di Linares, “quegli imbrattamenti di rosso [che] sembravano macchie di colore senza senso” (sic) – imbrattamenti che egli forse scorgerebbe anche dietro una poesia di Vittorio Sereni o dietro una Sequenza di Luciano Berio, io temo – ma potrebbe finalmente intuire che Vito Libero Linares ha cercato di “rovinare” – cioè di demolire e ricostruire – l’arte figurativa del suo tempo proprio come la “rovinò” il Caravaggio, secondo il già citato motto del suo contemporaneo, Giovanni Baglione.
Un’ultima parola: nel suo “Battibecco” il dott. Agate scrive, a un certo punto, che “Vito non sapeva usare la penna del critico d’arte”.
Qui egli ci “invita a nozze”, e forse Vito avrebbe a ciò replicato, con quel sorriso sarcastico e frizzante: “Certo! Io non critico: io faccio!”.
Ma al di là di queste provocazioni alle quali Linares aveva abituato il nostro orfano orecchio, posso dire con un po’ di sicumera che Vito scrisse assai poco, tantomeno pubblicamente, perché era convinto che fosse la Sua stessa “vita vissuta” a parlare, col suo pensiero e le sue opere d’arte, molto più di tante parole intrappolate nell’ambra di un trattato, o sciorinate in un qualche rotocalco à la page.
Credo che, a fronte di questo, non ci sia risposta più calzante di quella di Socrate, risposta che il filosofo attico (per l’appunto) mai scrisse ma professò solo oralmente, lasciando che fosse il suo allievo Platone a trascriverla nel “Fedro” (274 c–276 a). In questo passo, per inciso, Socrate parlò (forse a torto) anche di pittura, ma a me interessa ora la parte che riguarda la parola scritta, parola di cui Vito Linares ha sempre diffidato, socraticamente:
“SOCRATE: Dunque, chi crede di poter tramandare un’arte affidandola all’alfabeto e chi a sua volta l’accoglie supponendo che dallo scritto si possa trarre qualcosa di preciso e di permanente, deve esser pieno d’una grande ingenuità, e deve ignorare assolutamente la profezia di Ammone se s’immagina che le parole scritte siano qualcosa di più del rinfrescare la memoria a chi sa le cose di cui tratta lo scritto.
FEDRO: E’ giustissimo.
SOCRATE: Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono, esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo per iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione, esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi”.
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