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14/02/2018 06:00:00

Castelvetrano. La chiusura di Area 14 spiegata bene, tra politica, affari e...

 Abusivamente detenuto da un soggetto privato. E’ quanto si legge nel provvedimento dirigenziale del Comune di qualche giorno fa. Si tratta di un immobile, usato da Area 14, col contratto scaduto dal giugno del 2016, “inadempiente con il pagamento dei canoni concessori e dei tributi comunali”.

Non sarebbe stata una scelta discrezionale della commissione straordinaria, che da giugno dello scorso anno amministra il comune di Castelvetrano sciolto per mafia, ma un atto dovuto per legge. Nel mese di settembre, tra la città e le borgate, era stata imposta la chiusura anche ad una ventina di attività commerciali non in regola. Misure che rientrano nell’ottica del risanamento delle casse comunali. Accertamenti sui tributi (per carità, con tutti gli eventuali limiti ed errori) che non colpiscono soltanto i cittadini comuni ma, come è naturale che sia, arrivano anche negli ambienti imprenditoriali che si occupano di ristorazione, intrattenimento, cultura e (almeno sulla carta) promozione di prodotti tipici. I primi a piangerne le conseguenze, in questo caso, sono i giovani dipendenti, che non potevano certo sapere come stessero le cose e rischiano adesso il proprio posto di lavoro. Dipendenti, per altro, di una società (la Sicily’s Taste Srl) alla quale la proprietà di Area 14 aveva affittato un ramo d’azienda nel novembre del 2015. 

 

Difficile al momento dire con precisione a quanto ammonti l’attuale debito nei confronti del comune. Ma dal 2006 al 2013 la società Gogò Srl, locataria dell’immobile, doveva 53.709,08 euro, visto che non aveva mai pagato il canone concessorio di 7000 euro all’anno. Una somma risibile per un locale di oltre 2000 metri quadrati, non molto superiore al valore d’affitto di un negozio di poche decine di metri quadrati in centro, o all’interno del centro commerciale Belicittà.

Ecco perché nel 2014 l’avvocato della società, aveva chiesto al comune un piano di rateizzazione di 13 mila euro al trimestre  (con una polizza fideiussoria) ed “il rinnovo del contratto per ulteriori 10 anni”, attraverso un “formale ed efficace atto amministrativo” che sarebbe servito anche per ottenere ulteriore credito presso le banche.

Ma qualcosa andò storto. La giunta comunale, infatti, asseverò il piano di rientro, ma per il rinnovo aggiunse soltanto un paio di righe in coda alla delibera in cui scriveva di “manifestare l’espressa volontà di rinunciare, alla scadenza del contratto di locazione rep. n. 7809 del 18.05.2006, alla risoluzione dello stesso e di rinnovarlo per un ulteriore periodo di anni dieci”. A questa manifestazione di volontà però non seguì nessun altro atto amministrativo fino a quando, nel giugno 2016, il contratto arrivò alla scadenza. Il piano di rientro, per altro, riguardava soltanto i canoni di concessione e non i tributi non pagati, per i quali oggi sono state attivate le procedure per il recupero coattivo.

 

Alla fine del 2013, pochi mesi prima che venisse chiesta al comune la proposta di rientro, la Gogò Spa aveva 23 soci ed un capitale sociale di 2 milioni e 75 mila euro. La quota di maggioranza (41,05%) era sempre della famiglia di Pasquale Rizzo, titolare anche del gruppo commerciale “Keidea”. La politica dunque, attraverso le conoscenze del fratello Francesco, non è riuscita a rimettere in gioco la società.

Francesco Rizzo si era sempre occupato di politica, da consigliere comunale con Forza Italia nel 1994 ad assessore comunale dal 1997 al 2006 (con qualche interruzione), passando anche per la candidatura alle regionali nel 2001 con più di 3800 voti, fino alla designazione da assessore col candidato sindaco di Castelvetrano, Giovanni Lo Sciuto, nel 2012. In quest’ultima occasione, ai dipendenti di “Keidea” era stato caldamente consigliato di votare Piero Sciacia del Pdl, nella coalizione di Lo Sciuto.

Il contratto però arrivò lo stesso a scadenza nel giugno del 2016. E, cosa ancora più singolare, non successe nulla fino ad oggi. Insomma, qualcosa di più che un semplice disguido burocratico, come ha sottolineato la società in un comunicato stampa in cui si allude perfino ad una mancanza di apprezzamento da parte delle autorità locali (i commissari straordinari) per le attività culturali e di intrattenimento svolte fino ad oggi.

E’ come se nel corso degli anni, il rapporto tra politica ed imprenditoria sia andato in tilt.

 

Anche lo staff dell’annessa libreria Mondadori si aspetta che la vicenda possa essere chiarita al più presto e scrive che “un territorio senza cultura è destinato a dimenticare chi è, da dove viene, ma soprattutto perde l’orientamento e va incontro ad un destino incerto”.

Qui, augurandoci che comunque tutto possa risolversi al meglio soprattutto per quei ragazzi che si sono ritrovati senza lavoro per colpe non proprie, cerchiamo invece di capire chi è Area 14, da dove viene e perché ha perso l’orientamento andando incontro ad un destino incerto.

 

Area 14 viene inaugurata il 6 marzo del 2014: “Uno spazio d’intrattenimento che si propone di diventare un polo d’attrazione turistico-culturale di riferimento per tutta la Sicilia occidentale”.

Dopo tre mesi viene inaugurata di nuovo. O meglio, viene inaugurato uno spazio per la promozione dei prodotti tipici. E’ presente anche il sindaco Errante, che dichiara: “Plaudiamo all’iniziativa degli imprenditori che hanno allestito uno spazio molto significativo che auspichiamo possa diventare un prezioso punto di riferimento per far conoscere ed apprezzare le nostre eccellenze”.

Oggi, dopo quasi quattro anni, a nessuno verrebbe in mente di associare Area 14 ai prodotti tipici del territorio.

Eppure, quando nel 2006 il Comune stipulò il contratto per la concessione dell’immobile a Giuseppe Patti (il contratto decennale scaduto nel 2016), dopo un bando pubblico, l’articolo 1 parlava chiaramente di “esercitare all’interno dello stesso, attività di tipo artigianale e commerciale rivolta alla produzione e commercializzazione di prodotti tipici del territorio, secondo quando indicato nella proposta progettuale formulata dalla ditta Patti e allegata all’istanza di partecipazione al bando…”.

 

In sostanza il comune nel 2006 si ritrovava un capannone in cemento armato circondato da un’area libera recintata in contrada Strasatto, inutilizzato ed esposto al degrado.

E ad un certo punto, l’illuminazione: “Si è posta la necessità di attivare concretamente l’immobile, da un lato per scongiurare il degrado conseguente al mancato utilizzo – si legge nel contratto di concessione – e dall’altro, per realizzare gli obiettivi sin dall’inizio voluti dall’Amministrazione Comunale”.

E quali erano questi obiettivi? “La promozione e diffusione nel mercato di prodotti tipici locali – si legge ancora – peraltro, fine ultimo per il quale l’immobile in oggetto è stato realizzato”.

 

Dopo l’assegnazione, i lavori di realizzazione di tutte le opere previste necessarie per adibire l’immobile allo scopo (opere, per contratto, a carico del concessionario), durarono anni, nonostante l’articolo 6 del contratto di concessione ne prevedeva l’inizio entro tre mesi e l’ultimazione entro sei.

Intanto, la ditta Giuseppe Patti srl nel 2010 cambierà nome in Gogò Srl, che nel 2015 fa un contratto di affitto di ramo d’azienda alla Sicily’s Taste Srl.

Il resto, purtroppo, è storia nota.

Ma per certi versi è un deja vu. Proprio come quella storia, certamente di dimensioni molto più contenute, sulla gestione dell’area di accesso al mare di Selinunte (ne avevamo parlato qui).

E’ un fenomeno diffusissimo in tutta Italia, con bandi poco appetibili perché vincolano a determinate attività. Li vincono quelli che poi utilizzeranno i beni in modo diverso dalle condizioni imposte dal bando stesso.

Si dirà, ma danno lavoro, è l’economia che gira. Certamente. Però a guadagnarci sono sempre le stesse persone con regole che raramente sono davvero uguali per tutti.

L’impressione è che in questo caso il prodotto tipico sia stato il clientelismo. Più che una promozione del territorio, sembra di assistere alla sua bocciatura.

 

Egidio Morici



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