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15/01/2018 06:00:00

Castelvetrano. Giambalvo, il pentito Cimarosa e il punto di vista del figlio Giuseppe

Se il pentito è deceduto e non era ancora stato sentito in contraddittorio, le sue dichiarazioni sono inutilizzabili.

Lo dice la quarta sezione della Corte d'appello di Palermo, accogliendo le tesi dei difensori di Calogero Giambalvo, ex consigliere comunale di Castelvetrano accusato di collusioni con il superlatitante Matteo Messina Denaro.

Si tratta di dichiarazioni verbalizzate il 22 gennaio e il 16 febbraio del 2016 da Lorenzo Cimarosa, cugino acquisito del boss, morto l’8 gennaio del 2017 a causa di una grave malattia. Avrebbe dovuto essere ascoltato con le forme dell’incidente probatorio, in modo da dare alle persone da lui accusate la possibilità di difendersi. Ma così non è stato ed il collegio, presieduto da Mario Fontana, ha fatto proprie le osservazioni degli  avvocati Roberto Tricoli, Massimiliano Miceli ed Enzo Salvo, sottolineando che “l’evoluzione della malattia in senso peggiorativo era da ritenersi prevedibile”, per cui la Procura generale, in seguito al ricorso in appello depositato il 29 agosto 2016, avrebbe dovuto avere l’onere di assicurare ai difensori di Giambalvo la possibilità di controesaminare il Cimarosa, proprio “per il fondato motivo che il dichiarante non avrebbe potuto essere esaminato in dibattimento per infermità o altro grave impedimento”.

Si potrebbe pensare che l’accusa non avrebbe avuto motivo di darsi da fare per agevolare l’imputato. Ma le cose stanno diversamente.

Il pm infatti, come sottolinea il collegio di secondo grado, “nell’ordinamento italiano è figura di garanzia ed è chiamato perfino a raccogliere prove a favore dell’indagato”.

La storia di Lillo Giambalvo è nota. Anche se il clamore sulle intercettazioni in cui tesseva le lodi di Messina Denaro (padre e figlio) hanno finito per adombrare i motivi più importanti del suo arresto, finito poi con l’assoluzione in primo grado. Secondo quanto si legge nelle carte dell’operazione Eden 2, sarebbe intervenuto per garantire ad imprese vicine alla famiglia mafiosa “il controllo di imponenti opere edilizie”, oltre ad “avere organizzato e/o partecipato a rapine ed estorsioni al fine di continuare a garantire il sostentamento economico della detta famiglia mafiosa nonché per avere con minacce imposto ad operatori commerciali della zona l’acquisto di bibite dalla propria azienda e provveduto ad esigere da terzi crediti vantati da soggetti che a lui si erano rivolti a tal fine”.

 

Secondo l’accusa, Giambalvo avrebbe partecipato anche al pestaggio della persona ritenuta responsabile del furto di denaro e preziosi presso la casa dei genitori di Giuseppe (Rocky) Fontana, pregiudicato vicino alla famiglia mafiosa, arrestato ed anche lui assolto nello stesso procedimento.

Insomma, il punto cruciale non sta nelle intercettazioni in cui afferma che si farebbe 30 anni di galera pur di nascondere il boss ed evitargli la cattura. E non sta nemmeno negli altri coloriti racconti di incontri col superboss in mezzo ai vigneti, tra abbracci e lepri da quattro chili e mezzo prese durante la caccia. In termini giudiziari, non ci sono rilevanze penali neanche nell’aver auspicato l’uccisione di uno dei figli di Lorenzo Cimarosa, le cui dichiarazioni su Giambalvo (tra i motivi del ricorso in Appello) adesso non saranno più prese in considerazione.

Cimarosa lo aveva descritto come “uno dei componenti della famiglia mafiosa di Castelvetrano al quale è stato affidato il delicato compito di tramite per i rapporti con esponenti mafiosi del mandamento di Alcamo”. Ciò in virtù della frequentazione e della parentela con lo zio Vincenzo La Cascia, già condannato per mafia.

 

Ma Cimarosa non può più ripetere queste affermazioni in contraddittorio con la difesa. Anche se la parentela mafiosa di Giambalvo, secondo quanto emerge dalle carte di Eden 2, avrebbe definito addirittura la sua stessa identità. L’occasione è infatti relativa alla vicenda di un tizio di Gibellina che, avendo preso in gestione un bar a Castelvetrano, per le bevande aveva pensato di rifornirsi appunto a Gibellina. Giambalvo, che era nella zona una figura predominante per la gestione ed il commercio delle bevande, gli aveva dimostrato il suo disappunto: “…Tu nel mio paese, fammi capire! … Che tu prendi a quelli di Gibellina e gli fai portare la merce qua? … Io fuoco ti do’, a te e a tutto il locale, hai capito?”. Il tizio allora si rivolgeva ai Ragona di Gibellina ed interveniva u “zu Petru” (anziano capomafia, poi morto nel maggio del 2012), che però riconosceva il Giambalvo e rimproverava il tizio: “Prima di parlare, devi sapere chi sono le persone … hai capito? Perché se tu mi dicevi che era Lillo La Cascia, io ti dicevo… pigliaci le bibite, non avevo bisogno si scendere a Castelvetrano”.

 

Si potrebbe pensare: ce n’è abbastanza. Invece no, perché anche questi contenuti fanno parte di un racconto dello stesso Giambalvo, che però... cugghiuniava (scherzava).

Insomma, un buontempone.

Racconta che si era preso il caffè con don Ciccio Messina Denaro (padre del boss latitante), ma... cugghiuniava. Racconta di aver abbracciato Matteo Messina Denaro e di aver pianto insieme a lui per mezz’ora, ma... cugghiuniava. A maggior ragione cugghiuniava sulla lepre da 4 chili e mezzo e sulla partecipazione di ditte vicine alla mafia alle grandi opere edilizie.

Chissà se cugghiuniava anche quando disse che sarebbe stato opportuno ammazzare uno dei figli di Cimarosa:  “Se io fossi Matteo, ci ammazzassi un figghiu. La verità ti dico... e viremu si continua a parlari”.

 

Ad ogni modo, il Tribunale di Marsala non aveva potuto provare l’appartenenza di Giambalvo alla mafia, ma soltanto “una sorta di incondizionata adesione ai valori e ai fini di Cosa nostra”. Ma la procura di Palermo aveva fatto ricorso contro l’assoluzione di primo grado, citando anche le intercettazioni tra l’ex consigliere e lo zio boss Vincenzo La Cascia. Colloqui, secondo gli inquirenti, “finalizzati a influire sull'esito finale delle elezioni amministrative a Castelvetrano e Campobello di Mazara”.

Difficile al momento dire tutto ciò che Lorenzo Cimarosa ha riferito negli ultimi verbali. Cose che comunque non saranno tenute in alcun conto.

 

Oggi, qualcuno pensa all’assoluzione di Giambalvo come un fatto positivo che potrebbe addirittura influire sulla riabilitazione del comune di Castelvetrano dopo lo scioglimento, visto che, tra le altre cose, nella relativa relazione viene citato anche il caso del discusso consigliere.

Insomma, in una città che soffre di un abbandono intellettuale, forse ancora più grave di quello civico, il nemico rischia di non essere la mafia dei Messina Denaro e dei loro fiancheggiatori.

Ma diventa il ministro ed il prefetto che hanno firmato la relazione di scioglimento del comune.

Tesi, per altro sostenuta anche da Vittorio Sgarbi che, da ex sindaco di un comune sciolto per mafia, regala ai castelvetranesi (ormai convinti di essere considerati tutti mafiosi) la sua posizione sull’illegittimità dello scioglimento del comune, offrendosi come paladino a difesa del buon nome della comunità castelvetranese, la cui resurrezione si lega simbolicamente alla sfida dell’anastilosi del tempio G di Selinunte. Un tempio sbriciolato, già incompleto quand’era in piedi.

 

 

Dopo la notizia sull’inutilizzabilità delle dichiarazioni del pentito Lorenzo Cimarosa, abbiamo chiesto al figlio Guseppe, che cosa ne pensasse.

 

Mi dispiace che le sue dichiarazioni più recenti non potranno essere prese in considerazione, ma non è stata colpa sua. E se si tratta di una cosa prevista dalla legge, io non posso che averne profondo rispetto. Io so che mio padre, nell’ultimo periodo della sua vita, ha detto tutto quello che sapeva. Ha cominciato ammettendo le sue colpe e le sue responsabilità. Era un pentito, un collaboratore di giustizia che non ha mai ricercato vantaggi per se stesso. Ha continuato a dare il suo contributo fino alla morte, dando un taglio netto al passato.

Prima di morire mi ha regalato il suo cambiamento, che io avevo desiderato per anni.

E la cosa che mi fa più male è il fatto che spesso, nel riportare la vicenda di Giambalvo, ci si ricorda sempre di quanto osannasse Messina Denaro e che si sarebbe fatto trent’anni di galera per nasconderlo. Ma ci si dimentica delle frasi più gravi dove dice che, se lui fosse Messina Denaro, ucciderebbe  me o mio fratello, in modo da fermare la collaborazione di mio padre. Al di là di qualsiasi sentenza, vi lascio immaginare cos’ho provato ad ascoltare quella voce dire quelle cose così terribili.

 

Come percepisce i castelvetranesi di fronte al problema della mafia?

 

Per molti, la mafia a Castelvetrano non c’è. E’ solo un’etichetta. Infilano la testa sotto la sabbia al punto da convincersi che il problema principale siano i Cimarosa. Perfino lo scioglimento del comune per mafia, secondo alcuni, sarebbe stato colpa nostra.

E allora mi tocca leggere pure il fango che viene buttato su mio padre, anche da morto, da parte di piccoli blog locali, fatti da persone piccole che non hanno nemmeno il coraggio di firmarsi ed usano siti dove è difficile capire pure chi è il responsabile. 

 

Cosa vuol dire essere il figlio di un collaboratore di giustizia a Castelvetrano? Come pesa la parentela col boss?

 

La parentela col boss non mi pesa più. Perché la cosa più importante è stata condividere la scelta che ha fatto mio padre. Io sono orgoglioso di essere figlio del pentito. E lo sono perché ho potuto rendermi conto della genuinità di questa sua scelta. Capisco anche come questo orgoglio possa essere così distante da una cultura, purtroppo ancora molto presente, che vede il pentito come portatore di tutti i mali del mondo. Ma a Castelvetrano c’è anche chi, per fortuna, la pensa diversamente. Da anni, c’è stato un ricambio considerevole delle persone che mi frequentano: quelle di prima si sono allontanate quasi tutte, ma se ne sono avvicinate altre. La consapevolezza di non essere solo, non mi fa abbandonare la speranza che le cose possano cambiare.  

 

Egidio Morici

 

 



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