Malarazza è il nome - di fantasia – di una famiglia di boss malavitosi che vive in un quartiere di Catania, non frequentato dai turisti che affollano la vivace città; un luogo quasi nascosto, poiché dista circa sei chilometri dal centro storico; una zona in cui l’architettura degli anni Sessanta aveva disegnato abitazioni futuristiche che, invece, il tempo ha trasformato in ghetto, in cui i ragazzi sono straziati dal dilemma di restare, ancorati alle proprie radici, o scappare, verso qualcosa di più stimolante.
Il film è ambientato a Librino ma, se non fosse pieno di dialoghi in dialetto siciliano, potrebbe rispecchiare la situazione di numerose periferie italiane.
L’altro luogo in cui ha girato il regista Giovanni Virgilio è San Berillo, un tempo vero e proprio quartiere a luci rosse della cittadina, oggi in via di riqualificazione per la sua vicinanza al centro (stiamo parlando di una parallela di via Etnea), ma ancora luogo di prostituzione e sfruttamento.
Al di là della storia che narra, Malarazza è la fotografia, ai nostri giorni, dei quartieri degradati e della gioventù che li abita. Eppure la pellicola è fortemente consigliata perché non è l’ennesimo racconto di mafia.
Prima di tutto per il punto di vista: è attraverso gli occhi dei deboli, dei più emarginati, che scorriamo la vicenda. Rosaria è la giovane moglie di un mafioso, vittima delle sue violenze, madre di un figlio che cerca in tutti i modi di salvare da quel destino che sembra scritto nel suo cognome. Suo fratello Franco è un trans che si prostituisce dai tempi dell’adolescenza e raramente si allontana da quel budello in cui si mostra per lavorare o dalle stanze della sua casa, buia, claustrofobica e illuminata soltanto da luci artificiali.
Eccezionali gli interpreti. Stella Egitto sembra impersonare la bellezza triste della sua isola, una Sicilia piena di fascino, di contrasti e di dolori. Paolo Briguglia ha un’espressività così intensa al punto che i suoi sguardi parlano meglio delle sue parole. Le piccole ma significative parti di Lucia Sardo (l’abbiamo vista come madre di Peppino Impastato ne I cento passi), sono un costante richiamo all’azione. E i ragazzi sono tutti perfetti e spontanei, anche perché sono alla loro prima volta sullo schermo.
E poi c’è una colonna sonora studiata per ogni scena, in cui si passa dal rap alla bossa nova, dai neomelodici alla voce di Arisa.
Al contrario di molti lungometraggi e serie tv che affrontano l’argomento della violenza malavitosa, Malarazza è ugualmente crudo e realista, ma è una vera e propria denuncia, che non intende esaltare i criminali. Anzi, vuole prendere una posizione ben precisa, dimostrando che non possono esistere mezze misure, che “le cose o le fai o non le fai”, come dice Franco alla sorella. È un film sull’urgenza di mettere tutto allo scoperto, annullando vergogna e sotterfugi, sull’importanza dell’essere se stessi e del sentirsi liberi, sotto tanti punti di vista.
Il messaggio è chiaro e forte come un pugno nello stomaco. Malarazza è la voglia di salvare l’umanità da strazianti vendette che rischiano di diventare infinite, se qualcuno non ha la forza di fermarne il ciclo.
Qualcuno o qualcosa, perché la speranza c’è.
È nel libro che la donna nasconde dal marito, che la vorrebbe ignorante. È la purezza del suo volto angelico, in una figura femminile dal potere salvifico.
È la frase che il professore scrive alla lavagna, perché nessuno dimentichi che l’illegalità si nutre di povertà e ignoranza. È in quelle parole di Italo Calvino che aveva capito che “Ci sono frammenti di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascosti nelle città infelici”.
È nell’immensità di quel mare che osserva la morte, che accoglie e restituisce corpi, che con il suo infinito movimento ci fa ancora credere in una vaga idea di purificazione, seppur dopo tanto dolore.
Sabrina Sciabica