Prima, lo delegittimarono. «La campagna di delegittimazione di Giovanni Falcone, partita dentro Cosa nostra, si sviluppò grazie al fattivo apporto di settori del mondo professionale, imprenditoriale, politico, e di alcuni magistrati “complici”». Poi lo uccisero, in modo eclatante. «In questo processo, è emerso un quadro sia pure non ancora compiutamente delineato, che conferisce maggiore forza alla tesi secondo cui ambienti esterni a Cosa nostra si possano essere trovati, in un determinato periodo storico, in una situazione di convergenza di interessi con l’organizzazione mafiosa, condividendone i progetti ed incoraggiandone le azioni, come ha sostenuto la procura». Questo hanno scritto i giudici della corte d’assise di Caltanissetta che hanno celebrato il processo bis per la strage di Capaci. Quattro ergastoli, per Salvino Madonia, Lorenzo Tinnirello, Giorgio Pizzo e Cosimo Lo Nigro: i padrini sfuggiti alle accuse per 24 anni, gli ultimi componenti del commando che il 23 maggio del 1992 uccise il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Un altro pezzo di verità ricostruito dal pool della procura di Caltanissetta guidata da Amedeo Bertone. Le indagini dei procuratori aggiunti Lia Sava e Gabriele Paci, del sostituto Stefano Luciani non si sono mai fermate.
Ora, il presidente della corte d'assise Antonio Baslamo e la giudice a latere Graziella Luparello ripercorrono movente ed esecuzione della strage di Capaci in 1581 pagine. Un lavoro di ricostruzione dettagliato, reso possibile soprattutto dal contributo di due collaboratori di giustizia che hanno illuminato sui misteri di quella stagione, Antonino Giuffrè e Gaspare Spatuzza.
Giuffrè ha raccontato che prima della strage Bernardo Provenzano avviò una sorta di sondaggio «in ambienti fuori Cosa nostra». Ambienti dell'imprenditoria, della politica e della massoneria. Non è l’unico mistero. I giudici si chiedono perché nel marzo 1992 Riina richiamò il commando che doveva uccidere Falcone a Roma, per poi avviare l’organizzazione della strage lungo l'autostrada di Capaci? «Sembra difficile sostenere – scrivono nella sentenza - che il mutamento di programma rispondesse semplicemente a ragioni logistiche. Una simile ipotesi si pone in irrimediabile contrasto con la particolare complessità che contrassegnava l’organizzazione dell’attentato di Capaci. Appare, invece, molto più plausibile che la decisione di Salvatore Riina costituisse una coerente attuazione di quella finalità che Antonino Giuffrè ha sintetizzato
con la frase del capo di "Cosa bostra": “Facciamo la guerra che poi viene la pace” (...) Una strategia, questa, che fallì per effetto della forte reazione dello Stato, ma che, con ogni probabilità, fu alla base della scelta di Salvatore Riina di procedere prima all’eliminazione dell’onorevole Lima e poi alla realizzazione di un attentato che costituiva un vero e proprio atto di guerra contro lo Stato, come la strage di Capaci».
Da Repubblica - Salvo Palazzolo