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06/10/2017 19:09:00

Un pezzo politicamente scorretto sul buon uso della parola e delle sue regole

Ci provo, ma so già che mi tirerò addosso molte antipatie e mi dispiace, perché di questa storia si parla solo sottovoce o sui social, giusto per deridere e basta.

Sfottere un balbuziente è da vigliacchi, ammettere che lo abbiamo fatto un po’ tutti, anche solo raccontando una barzelletta, è un atto di onestà intellettuale. Eppure qui non si tratta di un impedimento clinico, di un limite fisico, di una stortura estetica inflitta dalla natura. Facciamo un esempio: il ministro Brunetta è insopportabile per quello che dice, per come lo dice e per quello che rappresenta, almeno per me. A questo si aggiunge, ma solo in seconda istanza, la sua ridotta statura che sembra messa lì apposta per rendere il tutto solo derisibile. Ma se anche fosse alto due metri, per me Brunetta sarebbe ugualmente patetico.

Sto cercando di avvicinarmi al punto, ma sento ancora la necessità di motivare questa riflessione nella speranza di sfoltire i nemici. Perché ci indigniamo con i ragazzi che non sanno scrivere neppure un post su facebook in lingua italiana? Perché se a commettere uno strafalcione è un avversario politico lo deridiamo pubblicamente? Perché rimproveriamo i nostri figli se sbagliano un congiuntivo o parlano uno slang sconclusionato e privo di costrutto? Ecco, diciamo chiaramente e una volta per tutte: se una persona che occupa un ruolo pubblico importante ci fa simpatia, l’abbiamo votata e continuiamo a rinnovare la nostra stima nei suoi confronti, anche dinnanzi all’evidenza, ci sentiamo in obbligo di difenderla. Ci aggrappiamo alla sostanza tralasciando quella forma che invochiamo invece solo per quelli che non ci garbano.

Eh no! O tutti o nessuno! Se non parlate ora dovete tacere per sempre, almeno su questo argomento. La comunicazione è un aspetto fondamentale quando si ricopre un ruolo pubblico, sfido chiunque a dire il contrario, e qui non stiamo parlando della comunicazione analogica o digitale dei Cinque assiomi di Watzlawick. Stiamo parlando di credibilità, quella che acquisisci non solo se fai le cose, ma soprattutto se comunichi in maniera chiara le cose che fai: soluzioni, difficoltà, possibilità. Nessuna strategia o furberia da imbonitore, ma, quanto meno, il minimo sindacale: una comunicazione linguisticamente corretta.

Frasi lasciate sospese, malapropismi raccapriccianti, desinenze sbagliate, sintassi massacrata e… mi fermo qui. E in tutto questo neppure un tentativo di correzione, perché a tutti è successo di storpiare una parola. La sensazione che si prova, ascoltando un discorso così sconnesso, è che nella testa di chi lo ha pensato regni una certa confusione. Ma forse mi sbaglio e questo problema è solo di quanti, come me, hanno letto il pensiero di Don Milani. La parola è per metà di colui che parla, per metà di colui che l’ascolta, diceva Michel de Montaigne, ecco perché mi arrabbio, rivendico quella parte che mi appartiene.

Perdonatemi, non ne parliamo più. Anzi scusate se ne ho parlato, se sono stata politicamente scorretta e non mi sono concentrata sulle cose buone fatte, e ce ne sono, da parte di questa amministrazione Di Girolamo. Curo questa rubrica da qualche anno ormai, e mi occupo prevalentemente di cultura intesa come ricchezza personale, patrimonio condivisibile anche attraverso la parola… per tutto il resto c’è la cronaca.
Katia Regina
 



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