Calamita o respingente, Pantelleria non ama le mezze misure. Sospesa tra noi e l’Africa (70 miglia dalla Sicilia, 40 dalla Tunisia), con più di 50 chilometri di costa e nemmeno una spiaggia, è un’«isola limite», come la definisce lo scrittore Giosuè Calaciura nella bella guida letteraria pubblicata un anno fa da Laterza. «Drammatica e soave, inquietante e dolcissima, nera di lava e d’ossidiana, verde di uva di Zibibbo, di capperi e ulivi, azzurra di lago, indaco di mare, Pantelleria è un confine non solo geografico, è una frontiera che accoglie, è un luogo che ci ricorda quanto sia fragile e al tempo stesso eccezionale la condizione umana».
Una cosa è certa: Pantelleria non sarà mai preda del turismo di massa, dei grandi numeri della villeggiatura mordi e fuggi, degli sbarchi per un tuffo, un pranzo a base di prodotti tipici e un souvenir. E non sarà mai l’isola dei famosi, anche se di vip ne ospita tanti, nascosti nei dammusi resi sfavillanti da architetti alla moda. Visitarla a febbraio, a maggio o a settembre non vi lascerà quel senso di abbandono tipico di certi luoghi condannati a un perpetuo agosto. Anzi, se avrete la fortuna di scendere in questi giorni all’aeroporto di Margana - lo volle Mussolini negli Anni 30 -, potrete assistere a uno dei momenti più emblematici dell’agricoltura pantesca, con i contadini impegnati nella vendemmia dello Zibibbo sui terrazzamenti, nell’appassimento al sole e nella sgrappolatura delle uve passite, tutte fasi di una tradizione agricola millenaria condivise e vissute da un’intera comunità.
Isola dove tutto è naturale e tutto è artificiale - come annotava Cesare Brandi -, Pantelleria è ovunque tracciata, sostenuta, cucita da centinaia di chilometri di muretti a secco in pietra lavica che lottano contro il caos del vulcano: la vigna è coltivata ad alberello molto basso, plasmata dal vento, su terrazze di piccole dimensioni, in un contesto di viticoltura eroica che richiede un impiego molto elevato di manodopera e che è stata inserita dall’Unesco tra i beni patrimonio dell’umanità in quanto «pratica agricola altamente sostenibile e creativa». Basta un sorso di Ben Ryé, il Passito di Pantelleria icona di Donnafugata che qui coltiva 68 ettari di vigneto tenendo in piedi il territorio quasi in solitaria, o di Bukkuram di De Bartoli, per scoprire tutto il fascino della viticoltura pantesca.
Se un tempo la coltivazione primaria sull’isola - oltre il grano - era quella del cotone, oggi la seconda coltura più importante dopo la vite è costituita dal cappero Igp, mentre un’altra produzione di nicchia molto prestigiosa è costituita dall’origano. Ingredienti che costituiscono la base (insieme con patate, olive, pomodoro e cipolle) dell’insalata pantesca, un piatto semplice e gustoso che racchiude tutti i sapori terreni di un popolo antico - è stata fenicia, romana, bizantina, araba, normanna, spagnola - e mai dedito alla pesca.
Altro esempio straordinario d’ingegno agronomico di cui l’isola è costellata - ce ne sono più di 400, la maggior parte dei quali in rovina - è il giardino pantesco, un edificio scoperchiato in pietra lavica e a pianta circolare al cui interno è conservato, chiuso da una porta, un solo albero di agrume. Come quello in località Khamma donato al Fai da Donnafugata, che conserva un rigogliosissimo albero carico di arance. Il vento caldo che sferza l’isola è carico di umidità. A contatto con la pietra lavica, che di notte si raffredda, l’umidità si condensa in tante piccole goccioline d’acqua. La pietra porosa la raccoglie come una spugna e la rilascia lentamente al terreno, consentendo alla pianta di crescere rigogliosa pur in assenza di pioggia e di qualunque sorgente in tutta Pantelleria. Se siete pronti per la sua «bellezza agghiacciante», come scriveva Truman Capote dopo averla visitata, affittate un dammuso per trascorrervi qualche giorno d’inverno. «Pantelleria è nata per l’inverno - assicurano i contadini chini sulla terra -. Con il suo misterioso silenzio, la sua energia positiva, il cielo stellato e il profumo del mare ti rendi conto che non hai bisogno di niente altro».
Roberto Fiori - La Stampa (qui il link originale)