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14/09/2017 06:00:00

Beni confiscati, solo una minoranza riutilizzati regolarmente. Mancano i controlli

In Italia su 23 mila immobili confiscati solo una minoranza sono quelli riutilizzati bene e regolarmente. Secondo i dati di «Fondazione con il Sud» la stima è di qualche migliaio. Il problema principale è che spesso servono soldi da investire per la ristrutturazioni, che gli enti locali danno i beni a chi non è in grado di usarli al meglio e manca un monitoraggio e un controllo dopo l'assegnazione. Questo vale per il sud Italia ma anche per il nord. Anche in una Regione tra le più ricche come la Lombardia. 

Esempio positivo di recupero -  A fine 2015 in Lombardia quasi la metà dei beni immobili confiscati era già stato destinato agli enti territoriali. E tuttavia di questi il 24% restava ancora inutilizzato, secondo Eupolis Lombardia, istituto di ricerca della Regione. Recuperare e rendere produttivo un bene confiscato non è semplice. Lo sa bene Giovanni Arzuffi, responsabile della cooperativa Arcadia,  che nel 2015 ha trasformato i locali di una pizzeria sequestrata in una osteria sociale, "La Tela". Fino al 2010 questa era la pizzeria Re Nove, ritenuta sotto il controllo di Giuseppe Antonio Medici, coinvolto in una maxi-inchiesta sulla ’ndrangheta. Dopo due anni di chiusura l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alle mafie assegna il locale al Comune di Rescaldina. Un bando lo affida ad alcune associazioni. Arzuffi, ricorda: "L’obiettivo era tornare a essere ristorante ma anche un centro di promozione culturale. Fondamentali 175 mila euro della Regione per ristrutturare e altri 40 mila euro messi dalla stessa cooperativa. Sono stati assunti assunti una decina di dipendenti, tra cui alcuni lavoratori socialmente svantaggiati. Oggi questo è il primo posto al Nord che, dopo la confisca, torna a essere quello che era".

  Quella dell'osteria "La Tela" è più l’eccezione che la norma, nel mondo dei beni confiscati, caratterizzato da ritardi, inefficienze, sottoutilizzo, fallimento o liquidazione di quanto sequestrato. "Le cause sono il frutto di una cattiva gestione e della totale assenza della pubblica amministrazione, commenta il magistrato Livia de Gennaro. Così come di una mancata vigilanza sull’operato degli amministratori".  Molti immobili sono destinati a enti locali, ma poi non c’è alcun tipo di monitoraggio sull’uso che ne viene fatto, commenta Antonio Dal Bianco, di Eupolis Lombardia -coordinatore della ricerca. «Molti diventano sedi di associazioni, ma senza avere ricadute sul territorio e senza diventare un simbolo di rilancio sociale».  Eppure la Lombardia è tra le Regioni con più beni sequestrati; e assiste a una crescente infiltrazione mafiosa. Ma anche qui, come nel resto d’Italia, ci si scontra con la cronica assenza di dati.

Numeri e dati non trasmessi - Delle 17 mila aziende sequestrate dal 1995 a fine 2016, 10 mila risultano attive «sulla carta», ma a dare veri segni di operatività sono solo 2758. Sono questi i numeri raccolti da Infocamere. "C'è un punto debole nella raccolta dei dati - spiega Paolo Ghezzi, direttore generale di Infocamere -. Gli ufficiali giudiziari non inviano le informazioni sui sequestri in maniera strutturata, non li inseriscono in un applicativo come nella normativa sui fallimenti. Oggi la trasmissione viene fatta via fax, o mail, con campi scritti a penna, con errori o mancanze, e a volte non si trova nemmeno l’impresa. A volte c’è la volontà di non far trovare l’impresa". Il problema era già emerso in una audizione alla Camera del 2016, dove lo stesso Ghezzi rilevava come su 1226 aziende confiscate, sul Registro imprese ne mancassero all’appello 352. Non si trovavano. 

«È insostenibile non disporre di un apparato dati preciso e completo, non avere un database pubblico con tutte le informazioni», si scalda Ernesto Savona, professore di criminologia alla Cattolica e direttore del centro di ricerca Transcrime. «Negli ultimi anni ad esempio gli investimenti delle mafie nelle imprese sono stati legati alla loro espansione nel Centro-Nord. E non è più solo controllo del territorio: diventano imprese redditizie. Che si mimetizzano di più. Ma nessuno si preoccupa di rilevare a quali organizzazioni appartengono i beni confiscati. Eppure mappare gli investimenti delle organizzazioni criminali servirebbe a fini investigativi».

L’Agenzia Nazionale
Sapere quali sono i beni sequestrati, in che stato sono, avere un quadro chiaro e in tempo reale è una priorità sottolineata anche da Nando Dalla Chiesa, una delle figure più note nello studio e il contrasto delle organizzazioni criminali. «Ma tutti i ricercatori hanno avuto problemi coi dati», commenta. Al centro del complesso sistema della confisca e destinazione dei beni della criminalità organizzata sta l’Agenzia nazionale (Anbsc), nata nel 2010. L’iter inizia infatti con il sequestro, «la fase più lunga e intensa, che impegna amministratori e consulenti nei primi e cruciali anni», commenta Stefania Radoccia, avvocato di Ernest & Young. «Prosegue con la confisca di primo grado, con quella definitiva e, infine, con la destinazione. Fase, quest’ultima, di esclusiva competenza dell’Agenzia nazionale».

Riforma codice antimafia arenata 
La riforma del Codice antimafia, tra le altre cose prevede nuove regole per limitare i conflitti d’interesse degli amministratori giudiziari. E in teoria un rafforzamento del ruolo dell’Agenzia. Che però sembra essere già stato ridimensionato. La legge ora rischia di arenarsi  alla Camera, dopo le polemiche suscitate per aver esteso i sequestri preventivi del patrimonio anche a reati come la corruzione. 

Gestione professionale  - C'è chi vorrebbe una riforma ben più radicale, con una gestione professionale dell’intero patrimonio immobiliare confiscato attraverso una specifica entità pubblica capace di garantire rendimenti e utilizzi migliori. Fondazione per il Sud ha proposto un ente che sostituisca l’Agenzia con competenze manageriali e industriali. E poi c'è il discorso della vendita ai privati.  "Meglio fare come in altri Paesi: si vende e la somma va al Fondo unico di giustizia per fare altro", commenta Savona. «Meglio che lasciare impoverire i beni. O tenere imprese decotte in vita per pagare gli amministratori».



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