di Antonino Contiliano - In Italia i poveri (sempre più poveri) aumentano. La povertà dilaga in lungo e largo e coinvolge indigeni e migranti. Anche la ricchezza dei ricchi (sempre più ricchi) aumenta. L’aumento però coincide con la concentrazione nelle mani di una cerchia sempre più ristretta. Una concentrazione che va di pari passo con tutte le riforme che sottraggono potere di controllo alle opposizioni e forza di resistenza alle stesse norme giuridiche e costituzionali ancora in vigore (indicative in tal senso sono le proposte di riforme del governo Renzi).
In tal senso è orientata, infatti, anche la stessa proposta referendaria di riforma della Costituzione (per i punti già programmati) del governo Renzi. Una proposta del potere costituito che, rovesciando il vecchio ordine repubblicano, fa però un potere costituente. In quanto già potere maggioritario dominante, infatti, il governo Renzi (come quello della troika in Europa) si pone come potenza-dominante e per ciò sovrana nel decidere e agire. Un agire che, mediato dai diversi linguaggi in uso nella società delle emergenze o delle crisi continue e degli stati d’eccezione delle politiche finanziare, regolamenta, irreggimenta e legittima a priori il divenire stesso degli eventi minoritari di opposizione e resistenza creativi. Alla molteplicità delle singolarità e dei movimenti di fuga popolari (l’ex popolo sovrano), infatti, si vuole impedire di esercitare l’azione alternativa e pluribiforcante rispetto al linguaggio monocratico del potere costituito e maggioritario. Il dominio della razza padrona che, dedita alle barriere (muri e fili spinati anche immateriali), lavora le dicotomiche –innovatori/conservatori, assistiti e prosumers, colpevoli e responsabili, fannulloni e creativi, lavoro dipendente e lavoro autonomo, improduttivi e produttivi etc. – tiene al monopolio del potere modulare per amministrare le divisioni stesse di classe. Le divisioni che insieme si mescolano alle differenze tra maggioranze e le minoranze e le stesse minoranze “minoritarie” della popolazione che fluttua come molteplicità e divenire.
Una concentrazione e un riformismo di classe che, intimamente e strutturalmente, si sposa con l’azione del monolinguismo omogeneizzante della politica dei crediti e dei debiti o dei mercati finanziari privati. Politica governamentale o dei dispositivi di cattura il cui scopo non è né libertà né eguaglianza né emancipazione, bensì l’asservimento continuo dei molti. Un dominio giocato con l’aumento della povertà e dell’indebitamento perpetuo delle stesse povertà crescenti (sia a livello locale che globale) con le banche e il loro monopolio (monopolio che si profila sempre più chiaramente sia con la politica del salvataggio delle banche che con il sistema delle fusioni bancarie).
Secondo un rapporto Cei nel 2016, in Italia, il livello di povertà, coinvolgente più italiani che stranieri o migranti, si è alzato e ciò nonostante si mettono in mostra dati di crescita e di occupazione anticrisi. Così, specie nel Mezzogiorno e nel Sud, le persone che chiedono aiuto ai centri “caritas” per arrivare alla fine del mese sono in aumento. Infatti «il 66,6% delle persone accolte nei centri sono connazionali, a fronte di un 33,1% di cittadini di altri Paesi. L’incidenza più alta del disagio si registra tra i minori, seguiti dalla classe 18-34 anni. Al contrario gli over 65 indigenti sono pochi, diversamente da quanto accadeva meno di un decennio fa. Al Sud […] gli italiani che chiedono aiuto per arrivare a fine mese hanno superato gli immigrati. E in tutta Italia esiste una vera e propria emergenza giovani, dovuta alla crisi del mercato del lavoro che continua a penalizzarli: più diminuisce l’età, più cresce la povertà. […] mentre (corsivo nostro) Matteo Renzi, rinvia al 2018 l’aumento di 500 milioni del Fondo per la lotta alla povertà. […] e l’Eurostat rende noto (corsivo nostro) che la Penisola è al quarto posto nella Ue per aumento (+3,2%) del rischio di povertà tra il 2008 e il 2015, alle spalle di Grecia (+7,6%), Cipro (+5,6%) e Spagna (+4,8 per cento)».
Ma se al Pil della povertà italiana e a quello che fiorisce nell’Ue, si aggiunge quello dei richiedenti asilo o dei rifugiati o quello dei disgraziati, che scappano dalla fame e dalla guerra umanitarie, il livello si alza ancora di più. Così (contabilizza la statistica Cei), aggiornando la ricchezza della povertà, ci troviamo ad assistere ad un incremento delle negatività. Infatti, provenienti soprattutto da Eritrea, Nigeria, Somalia, Sudan, Gambia, Siria, Mali, l’Italia del 2015 ha registrato i seguenti ingressi di povertà crescente: a) 153.842 migranti; b) 83.970 richiedenti asilo (a fronte dei diecimila circa del 2005); c) 7.770 profughi o richiedenti asilo politico o scappati dalle guerre e dalla fame che attanagliano i paesi d’origine. Nella generalità si tratta di gente già povera di per sé o per condizioni materiali o sociali e culturali. La loro età, fra l’altro, è compresa tra 18 e i 34 anni (79,2%). E sono persone provenienti soprattutto dagli «Stati africani e dell’Asia centro-meridionale […] Numerosi i casi di analfabetismo (26,0%). Il 61,2% si trova in situazioni di povertà economica (povertà estrema o mancanza totale di un reddito). Oltre la metà (il 55,8%) non ha un posto dove vivere. Queste persone chiedono beni e servizi materiali (pasti alle mense, vestiario, prodotti per l’igiene) oltre a un alloggio». Una umanità varia di uomini, donne, vecchi e bambini che, però, in Italia ed Europa trova debolezze, egoismi o una politica non adeguata e frammentaria, o giornalieri soccorsi improntati ad eterna emergenza, se non addirittura il cambio di rotta con il ritorno all’innalzamento dei muri e dei fili spinati. Altro che il sogno di un “continente” Europa senza confini!
Dall’altro lato se guardiamo alla concentrazione della ricchezza nelle mani dei pochi, si assiste a un numero decrescente, per cui dai 13 più ricchi, per esempio, del 2004
si passa poi ai 10 del 2016.
Le attuali politiche governative volte poi a salvaguardare i capitali finanziari delle multinazionali e delle banche, mettendoli al riparo delle bancherotte con il ripianarne i deficit speculativi o favorendone le fusioni, non fanno altro che favorire la crescita della povertà e delle misere condizioni di vita in cui versa gran parte della popolazione locale e mondiale. In Italia, per non andare lontano (ai governi tecnici di Mario Monti et alia), le scelte del governo Renzi sono molto chiare lì dove, per esempio, le quattro banche – Banca delle Marche, Carichieti, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio e Carife – sono state salvate e riconvertite – CariFerrara, Banca Etruria, Manca Marche e CariChieti – in base a un decreto governativo e all’uso del «bail-in». Un decreto d’urgenza (perché troppo rischioso fare fallire delle banche)! L’introduzione dell’invenzione della troika europea (Fmi, Eu/Consiglio d’Europa, Bce) del «bail-in» (cauzione), incorporata nello stesso decreto “salva banche”, per camuffare l’investimento pubblico, vietato dal neoliberismo degli investitori privati e dei mercati. Il cosiddetto bail in è «un sistema che prevede di salvare una banca utilizzando i soldi degli investitori invece che quelli dello stato, pratica soprannominata bail out». Il bail in – direttiva 2014/59/Ue BRRRD (Bank Recovery and Resolution Directive, ovvero quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento) –, introdotto dal decreto “salva banche”, ha così salvato le vecchie società sostituendole con quattro nuove banche.
Salvare le banche e i pochi ricchi è il nuovo comandamento della bibbia neocapitalistica. I poveri e i miserabili non hanno niente da perdere. La stessa vita e tutto il tempo di vita dei sei miliardi di essere umani (che oggi popolano il pianeta), se non funzionano secondo la logica del capitale e dei capitalisti, possono essere lasciati alla deriva e alla morte sine cura. Così, su sei miliardi di essere umani, oltre due miliardi (o più di un terzo dell’umanità attuale) vive nell’estrema miseria.
Al di là delle classificazioni (che conservano sempre dell’arbitrarietà), la povertà estrema e la miseria – scrive Guido Carandini – minaccia la sopravvivenza, mentre la prospettiva sono «la fame come condizione normale, la diffusione di malattie come l’Aids, l’alta mortalità infantile e la bassa aspettativa di vita». Dall’altra parte, secondo un rapporto delle Nazioni Unite, i numeri dicono che «2, 8 miliardi di uomini vivono come meno di due dollari al giorno e 1, 2 miliardi con meno di un dollaro al giorno. […] si deve ammettere che la prospettiva di un mondo intero che si attenda dal capitalismo un futuro di riscatto, è assai remota».
Il divario e l’asimmetria tra i pochi ricchi, i work poors (lavoratori poveri) e i poveri assoluti è anche quella della diseguaglianza che esaspera la lotta di classe attraverso le politiche delle eguaglianze delle disoccupazioni programmate, delle defiscalizzazioni e delle proprietà immobiliari e dei shadow baking (paradisi fiscali) oltre le differenze astronomiche dei redditi del comunismo capitalistico. Un comunismo, evidentemente, rovesciato: libertà, eguaglianza, diritti e potere solo per i ricchi e, inoltre, privatizzazione del pubblico e dello Stato sociale. Il comunismo rovesciato che ha visto il 99% vs l’1% contro cui si rivolta il movimento Occupy Wall Street. Il movimento cioè dei contestatori moltitudinario (oltre la politica dell’alleanza dei “blocchi sociali” di gramsciana memoria) che il 17 settembre, presso Zuccotti Park di New York, denuncia gli abusi del capitalismo finanziario e le sue crescenti diseguaglianze sistemiche. Asimmetrie che, per esempio, con riferimento al lavoro, sono coltivate sia attraverso una crescente espulsione dei lavoratori dai loro posti di lavoro tradizionali, sia delocalizzando l’attività industriale (vecchia e nuova), sia flessibilizzando all’interno di ogni territorio nazionale i soggetti assoggettati e asserviti, sia incrementando ed estendendo le nuove tecnologie produttive che sono a scarso impiego di manodopera dipendente.
Sembra un paradosso: la diminuzione è causa di aumento. Niente di strano. È la logica dell’autovalorizzazione del capitalismo finanziario-bancario dei nostri giorni o del debito infinito di cui il credito dei ricchi si serve per tenere assoggettati e asserviti sia i già poveri che quelli impoveriti o in via di impoverimento permanente. Il vero capitale-denaro, attualmente agente, quello cioè di investimento del capitalismo collettivo neoliberista o finanziario, è infatti quello che cura l’impoverimento e la subordinazione mediante la politica dei crediti dei mercati finanziari e dell’indebitamento servile dei cittadini-clienti o consumatori del modello in corso d’opera. È la logica, si può dire, dell’inversamente proporzionale ereditata dalle precedenti forme di capitalismo, per cui la diminuzione-aumento dell’uno risponde all’aumento-aumento dell’altro polo.
La contraddizione è solo apparente. Il paradosso è immanente alla produzione e alla circolarità del comando capitalistico. I molti poveri sono la fonte della ricchezza dei pochi super ricchi e capitalisti sfruttatori. Lo sfruttamento trasversale che oggi passa attraverso la politica dell’indebitamento a vita (esemplare in tal senso è la legge dell’attuale governo Renzi che prevede la possibilità di anticipare il pensionamento, ma a patto di indebitarsi con le banche fino alla restituzione del prestito contratto per la richiesta di prepensionamento anticipato), o con la politica delle carte di credito-famiglia in funzione delle varie spese del nucleo familiare stesso, o con la distribuzione di certe somme una tantum per l’acquisto di merci offerte soprattutto dal marketing in corso). E ciò – a guardare i diversi dati differenziali che sostanziano i diversi settori del sistema-mondo e gli stessi livelli di vita e di esistenza delle diverse parti del pianeta – è vero sia nel locale che nel globale.
Ma, in sintesi, non diverso è il cammino, già avviato, peraltro, dalle stesse proposte di riforme costituzionali in corso di attuazione. Oggi, infatti, all’ordine del giorno è il referendum per certa riforma costituzionale che non fa altro che accelerare la concentrazione del potere governativo neoliberista da un lato e, dall’altra, rendere sempre più evanescente qualsiasi contrappeso, pur di stampo liberale. Un altro referendum che centralizza e accelera ulteriormente il potere monocratico del capitalismo finanziario, mentre una classe politica complice, sostenuta dai media del consenso, si adopera per far incorporare soggettivazioni di passività. Una coscienza a-critica orientata non a “meno governo”, ma ad organizzare assetti amministrativi di sicurezza securitaria con meno democrazia (diretta o indiretta che sia!). Una tendenza perseguita per via di auto-convinzioni e coinvolgimenti curati con la “fiducia” nella “bontà” dell’innovazione golpista soft; la tecnologia di potere propagandata e mediata come modernizzazione all’altezza dei tempi della libertà dei mercati: la democrazia del mercato finanziario privato e globale che, ignorando le differenze e affidando il tutto alla presunta impersonalità dei meccanismi procedurali, si affida alle stesse agenzie del ‘rating’ private e alle valutazioni spread auto-parametrate in proprio.
Si diceva ulteriormente golpismo soft, perché il primo golpe risale – come ha scritto Alberto Burgio – al 2012, l’anno in cui il governo italiano suddito e la troika misero in vigore il fiscal compact e, insieme, diedero mano alla modifica degli articoli 81, 97, 117 e 119 della Costituzione.
Il risanamento del debito pubblico in Italia – scrive Alberto Burgio – ha visto l’entrata in vigore del cosiddetto “fiscal compact” (Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria-finanziaria) in base all’applicazione del Patto di bilancio europeo del 2012. Il patto ha mutilato però lo spirito democratico della Carta costituzionale italiana (e senza che nessuno battesse ciglio). In un “parlamento commissariato”, e in assenza di un dibattito aperto pubblico, infatti, scatta il golpe del patto europeo, nonostante nel 2011 fosse stato prospettato un piano d’austerità dilatato fino al 2014.
Il tentativo del governo italiano, infatti, è stato fatto nel luglio 2011 dal “Governo Berlusconi IV”. Si trattava di «un piano di austerità di 87,7 miliardi di euro di tagli da realizzare entro il 2014, piano che nella sua iniquità, al pari di quelli adottati da altri paesi europei, lasciava margini di incertezza sul contenuto e sull’arco temporale fissato per la sua attuazione. Sono bastati però (corsivo nostro) due giorni di speculazione sui titoli del debito sovrano italiano per accelerare la manovra. Il giorno successivo alla vendita massiccia di titoli di Stato detenuti dagli investitori, maggioranza e opposizione, dietro pressione dei “mercati”, si sono affrettate a trovare un accordo per approvare il piano. I governi e i parlamenti sono semplici esecutori delle decisioni e delle scadenze fissate altrove rispetto a quella che ancora chiamiamo “sovranità” nazionale». Il 5 agosto dello stesso 2011 però Jean Claude Trichet, governatore uscente della Bce (Banca Centrale Europea) e Mario Draghi, governatore subentrante, scrivono una lettera al governo italiano “imponendo” misure e tagli urgenti per uscire dalla crisi. Tra queste misure, l’indicazione dell’imminente obbligo del controllo del bilancio in osservanza ai tagli dettati dalla troika. Nasceva il “fiscal compact” ma sotto il governo di Mario Monti, insediatosi dopo le dimissioni di Berlusconi e lo scioglimento del suo governo.
Il patto del “fiscal compact”, antisociale e antidemocratico, messo a punto dall’attuale governance di esperti bancari e finanziari privati, infatti, è stato calato nel corpus costituzionale del paese con un colpo di mano tecnocratico silenzioso. Nessuna resistenza delle forze delle rappresentanze. E chiunque si dovesse trovare alla guida governativa deve ora così rispettarlo senza titubanza, se non vuole incappare nelle sanzioni previste dal capitale finanziario-bancario, autonomizzatosi potere promovente e censorio. Le sanzioni colpirebbero però (ulteriormente) solo la massa delle persone indifese e senza nessuna garanzia.
Il “fiscal compact”, sottoscritto il 2 marzo 2012,
da venticinque capi di Stato e di governo dell’Ue (tutti tranne quelli di Gran Bretagna e Repubblica Ceca), ha formalmente sancito la fine della democrazia costituzionale, e tutti sanno (o dovrebbero sapere) che un dato di fatto cambia sostanzialmente quando diventa anche un fatto formale. Il patto stabilisce che gli Stati cedano, senza corrispettivi, la propria sovranità finanziaria (fiscale e di bilancio) alla Commissione europea e alla Corte di giustizia, che registra un incremento dei suoi poteri sanzionatori nei confronti degli Stati membri che dovessero mancare l’obiettivo del pareggio di bilancio. In sostanza, tutto il potere politico (non c’è politica senza risorse finanziare) passa a una tecnocrazia politicamente irresponsabile che agisce sotto dettatura dei mercati finanziari, dei quali garantisce anarchia e anomia. Il governatore della Banca centrale l’ha detto senza giri di parole: l’Europa esige «la delega della sovranità fiscale dai governi nazionali a qualche forma di autorità centrale». Tradotto in volgare, l’oligarchia europea fiuta la possibilità di sfruttare la crisi per stravincere, e non intende fare prigionieri.
In Italia il vincolo del pareggio di bilancio (principio-base del patto fiscale) è stato addirittura inserito in Costituzione mediante la revisione degli articoli 81, 97, 117 e 119 approvata in via definitiva il 18 aprile da un Parlamento commissariato. Chiunque andrà al governo d’ora in avanti dovrà rinunciare ‒ salvo circostanze eccezionali ‒ a ricorrere all’indebitamento quale strumento di politica economica. Benché questo impegno si tradurrà in ulteriori lesioni dei loro diritti, i cittadini non ne sono stati informati. I cosiddetti organi d’informazione parlano d’altro, come quando c’era Lui (ma senza l’alibi di essere costretti a obbedire a un tiranno). E poiché il pareggio di bilancio impedirà sine die politiche redistributive, a essere negato in radice è lo spirito stesso della Costituzione democratica e antifascista.
Il “fiscal compact”, imposto dalla troika del neoliberismo, non era, come credeva Foucault, di «governare il meno possibile», ma «meno di democrazia possibile»: centralizzare il potere e il denaro in un’economia del ricatto del debito e di drenaggio del Welfare. I conflitti politici sulle pensioni e i diritti sociali sono, infatti, continuamente sovrastati da una stessa politica del ricatto: se non si diminuiscono i diritti sociali (taglio delle pensioni, assistenze, sanità, istruzione etc.) non si esce dalla crisi e dal rischio del default.
È dunque del tutto coerente che un’economia criminale si sviluppi parallelamente al liberismo finanziario. Esso ne è insieme fenomeno strutturale e pilastro antidemocratico. E il ricatto è la forma del governo «democratico» (europeo e italiano) che agisce in base alla politica dei crediti, dei debiti e della politica fiscale anarchica come legali atti di pirateria contro lo “stato sociale”.
Il pathos e la serietà delle verità di Stato, scriveva Mikail Bachtin, si scontra con l’ironia e l’allegoria degradante del popolo. Se «il popolo non ride sulla piazza pubblica, allora il popolo tace […] Il suo eroismo conserva sempre un tono ironico, verso tutto il pathos della verità dello Stato. È per questa ragione che l’ideologia di classe […] si scontra […] con la barriera, insopportabile per lei, dell’ironia e dell’allegoria degradante, con la scintilla carnevalesca dell’imprecazione gioiosa che distrugge ogni serietà».
Sarebbe il caso di lanciare una nuova campagna per la legalità, questa volta, avente però come oggetto la corruzione e la degenerazione degli “illegalismi legali” e lo scherno della trasparenza neoliberistica del colonialismo finanziario mondiale!