La riflessione di Agate sulla retorica delle commemorazioni del 25 Aprile si inserisce pienamente nello stantìo rituale praticato, da alcuni anni a questa parte, dai detrattori dell'antifascismo.
Da Pansa in poi, in molti si sono sentiti liberi di riscrivere la storia nel vano tentativo di prendersi delle rivincite, di riabilitare i carnefici, di spacciare per "operazioni-verità" le invettive rancorose nei confronti della lotta antifascista e dei suoi esiti.
Entriamo nel merito.
È sicuramente vero che i gruppi partigiani si organizzarono militarmente solo dopo la caduta del regime fascista, cogliendo un'evidente opportunità anche sul piano meramente logistico. Ma questo dato non può servire a minimizzare il coraggio di chi scelse di prendere le armi contro la dittatura e contro la feroce occupazione tedesca, dando corpo a una Resistenza che era già cominciata anni prima, tra molte difficoltà, nelle dolorose esperienze dell'esilio o del confino.
Eppure, Agate volutamente minimizza le "azioni guerresche" dei partigiani sostenendo che "incisero poco sull'andamento della guerra, che fu vinta contro i nazifascisti dall'esercito alleato che risaliva dalla Sicilia". Si tratta di una ricostruzione semplicistica, oltre che tendenziosa. Come dimenticare, infatti, le Quattro giornate di Napoli, allorché il capoluogo partenopeo insorse contro i tedeschi ben prima dell'arrivo degli americani? E come trascurare, ancora, le numerose repubbliche partigiane disseminate in tutta l'Italia settentrionale già dal 1944? E che dire della rivolta delle donne di Carrara che impedirono lo sfollamento della città ordinato dal comando tedesco? E poi, basti pensare che nel 1945, al loro arrivo in alcune città, gli Alleati le trovarono già liberate.
Un altro cavallo di battaglia del revisionismo antiresistenziale è quello della denuncia delle azioni cruente, da parte dei partigiani, contro i civili e i militari fascisti e nazisti, che "alimentarono la guerra civile tra gli italiani".
È fin troppo evidente che un contesto disumano come la guerra può facilmente condurre ad azioni efferate. Ed è altrettanto plausibile che, nell'apologia resistenziale, molti di questi episodi siano stati volutamente trascurati. Tutto questo, però, non può far dimenticare le evidenti responsabilità storiche e materiali del Fascismo, del suo duce e dei suoi sgherri, che trascinarono l'Italia nella guerra dopo aver assunto e mantenuto il potere per vent'anni attraverso metodi violenti e assassinii politici, distruggendo le libertà civili, promulgando leggi abiette, stringendo una salda alleanza con uno stato criminale e razzista come il Terzo Reich.
Francamente, gli annuali piagnistei con cui si addita la "guerra civile" nella quale si confondono volutamente le vittime con i carnefici, gli oppressi con gli oppressori, le cause con gli effetti, sono diventati davvero insopportabili.
È senz'altro vero che il Partito comunista italiano assunse un ruolo egemonico nella Resistenza e, soprattutto, nella sua narrazione post-bellica.
Tutta da dimostrare, invece, la volontà del PCI di fare dell'Italia un paese socialista del Patto di Varsavia. Non è andata così e si può tirare un sospiro di sollievo. Ma se avessero vinto i nazisti e i fascisti, allora democrazia e libertà ce le saremmo scordate forse per sempre.
In realtà, dalla svolta di Salerno in poi, furono subito chiari gli orientamenti compromissori del PCI, un partito d'ordine saldamente interessato - da lì agli anni a venire - al mantenimento dello status quo.
Quello che va detto, invece, una volta per tutte, è che se i fascisti e i loro epigoni hanno continuato - dal 1945 a oggi - ad avere agibilità politica in questo paese, devono proprio ringraziare quello stalinista di Togliatti, che - per tipico opportunismo politico - da ministro della giustizia concesse l'amnistia a un bel po' di gerarchi e collaborazionisti che ebbero così la possibilità di riciclarsi nella neonata Repubblica.
L'Italia, insomma, non è mai stata de-fascistizzata come si sarebbe potuto e dovuto fare.
Pertanto, sarebbe opportuno che certuni, anziché riscrivere la storia a loro uso e consumo, riflettessero su quanto essa sia stata con loro fin troppo benevola.
Alberto La Via