Qual è quella città, più o meno grande che sia, che non possa vantare una propria galleria di uomini illustri?
Dalla quotidianità della loro esistenza, costoro sono passati alla storia grazie ai cronisti del tempo che ne narrarono virtù, imprese e anche i vizi.
Da modesti cronisti del presente, un contributo per arricchire quella di Salemi vorrei darlo, raccontando la stupefacente storia umana e professionale del dottore Vito Surdo, notissimo ortopedico salemitano, a cui tanto deve la città veneta di Mirano e, di riflesso, anche quello anche quello che è stato insignito come un “borgo” tra i più belli d’Italia.
Quando si parla di emigrazione di cervelli sottratti alla Sicilia, che tanto avrebbero potuto dare a questa amara terra, e che invece hanno contribuito a rendere più civili e moderne le lande nordiche, è anche a uomini come Surdo che ci si riferisce.
Considerazioni solo apparentemente ovvie , ma è ciò a cui ho pensato appena terminata la lettura del libro dell’ortopedico Vito Surdo. Scritto, come egli stesso dice, sull’onda dei ricordi, ma anche seguendo un percorso tracciato su una lunghissima trafila di agende su cui vengono rivissuti i momenti più significativi della esistenza umana e professionale del medico.
Un libro affascinante e per certi versi emblematico, a cominciare dal titolo ironico. Scelto, forse per sdrammatizzare, da un ex-voto di tale Massimiliano Baroni, vittima di un incidente stradale, con il quale la vittima ringraziava il Santo per avere lasciato in vita il cavallo e non danneggiato il carro e poco importava se si era rotta una gamba. Tanto, “una gamba in qualche modo, si aggiusta!”, chiosava il miracolato. Un’affermazione disincanta, che l’ortopedico scrittore Surdo fa propria, non smentendo l’indole gioiosa con cui è sempre contraddistinto. Sia nell’approccio avuto con i suoi pazienti sia con quanti hanno avuto il privilegio di conoscerlo in privato. ( Ci vengono in mente i divertenti episodi di cui si rese artefice e protagonista durante le feste Universitarie della Matricola, oppure le “ mascherate” di Carnevale. Una vecchia usanza tipica di Salemi. Che non era la sfilata di carri, come oggi si crede tradendo ogni tradizione. Nel periodo in cui “semel in anno licet insanire” si svolgeva una tacita gara tra le cosiddette Mascherate, gruppi organizzati volontariamente per molti mesi allestivano delle sceneggiate satiriche con le quali si deridevano vizi di personaggi o istituzioni. Famosa quella che il nostro Surdo organizzò per “sbeffeggiare” il Circolo “Buoni Amici”, considerato dalla piccola borghesia locale come il tempio del perbenismo, un esclusivo club riservato ai più abbienti. Dopo qualche anno dallo scherzo carnascialesco, il Circolo aprì le porte al mondo universitario senza distinzioni di censo!
Ma torniamo al libro. Con stile scorrevole e piacevole esso racconta l’affascinante storia del reparto di Ortopedia di un Ospedale di provincia, quello di Mirano, destinato a diventare un punto di riferimento certo per una regione, e non solo.
E’ certamente anche la storia di uomini che hanno innovato e rivoluzionato giorno dopo giorno, la disciplina ortopedica.
La storia di un team di medici, di cui a pieno titolo il salemitano Vito Surdo fu un autorevole protagonista. La storia di un giovane medico che dopo la laurea all’Università di Palermo, inizia l’attività professionale prima presso l’Ospedale di Salemi, per poi inseguire un sogno per tanto tempo alimentato che lo porterà prima a Palermo, poi a Conegliano, e infine a Mirano. Ed è qui che troverà l’habitat ideale per concretizzare i suoi progetti. Vi approda nell’aprile del 1971, esattamente 45 anni fa tra qualche giorno. Iniziando alla grande. Con l’incarico prestigioso di aiuto del primario Sergio Acerboni.
Erano, quelli, gli anni in cui l’ortopedia e la traumatologia si trovavano ad un punto di svolta. Le fratture non si lasciavano più guarire in gesso. L’ansia di prestare ai pazienti il meglio si tagliava a fette. Con spirito pioneristico vennero introdotte le nuove tecniche di osteosintesi a compressione sperimentate per la prima volta dalla scuola svizzera di Berna. Grazie a queste nuove metodiche, una frattura veniva operata, stabilizzata con placca e viti o con un chiodo endomidollare. Sembra facile dirlo oggi. Ma dare l’ addio all’apparecchio gessato in quel periodo fu davvero una rivoluzione! Non solo! Il paziente era in grado di alzarsi dopo qualche giorno e riprendere le normali attività.
Insomma, tempi irripetibili quegli anni settanta. L’epoca d’oro dell’ortopedia, si direbbe.
Basti pensare che, fino a quel momento, il trattamento di una frattura alla gamba prevedeva l’immobilizzazione dell’arto per almeno 4 mesi per poi sottoporsi a cure rieducative, dal momento che i muscoli e le articolazioni si bloccavano e non era raro il caso che spesso la gamba risultasse essere più corta, storta o con disturbi al ginocchio, alla caviglia, ai muscoli a causa della prolungata immobilità in gesso.
Di tutto questo processo innovativo il dottore Vito Surdo fu uno dei più brillanti ed entusiasti comprimari.
La fama della sua bravura fu destinata a diffondersi rapidamente in gran parte della penisola, e, ovviamente, ancor di più in provincia di Trapani.
Iniziava così un interrotto “pellegrinaggio” di tanti ammalati di osteopatia dalla Sicilia alla volta della città di San Matteo destinato a durare per decenni.
Non mancano nel libro brani e passaggi di gustosa ilarità.
Come quando, ad esempio, vengono descritti i disagi a cui erano sottoposti pazienti ed operatori sanitari in occasione di un intervento operatorio. Un trasporto avventuroso quello dell’operando. Dalle corsie del piano terreno alla sala operatoria situata al primo piano, per mancanza dell’ascensore, l’ammalato in trazione veniva issato con tutto il letto lungo le strette rampe della scala. Con le conseguenze che ben si possono immaginare. Il tutto perché Il progettista aveva dimenticato l’installazione di un normale montacarichi. Cose che capitavano anche nel “perfetto” nord-est!
Un profano della materia senza difficoltà di comprensione, pagina dopo pagina, può seguire con interesse i primi tentativi sperimentali finalizzati alle applicazione di protesi rudimentali per le artrosi del ginocchio, come ad esempio il GUEPAR. Tentativi, purtroppo, in parte falliti.
Come può anche apprendere che l’allungamento degli arti con un fissatore esterno un metodo di cura ideato da Abramovich Ilizarov, un medico sovietico, premio Lenin nel 1979, si diffuse nel mondo per puro caso ( erano i tempi della guerra fredda) grazie al famoso giornalista Carlo Mauri.
Costui fece parte della famosa “spedizione Tigris”, un viaggio effettuato su imbarcazioni costruite interamente da giunchi, attorno alla penisola arabica. Fu in questa occasione che Mauri, affetto da una malformazione ad un arto a causa di un precedente intervento chirurgico non riuscito, venne a conoscenza dell’esistenza del valentissimo ortopedico sovietico.
Alla fine della spedizione, si mise all’opera per mettersi in contatto con Ilizarov. Fu combinato un incontro tra i due e subito dopo fu stabilito la data dell’intervento. A seguito del quale il giornalista recuperò la lunghezza dell’arto, la guarigione dell’infezione e la correzione della deformità del piede.
L’evento fu destinato a essere reso noto in tutto il mondo occidentale. Da buon giornalista, Mauri di ritorno da Kurgan, nell’Unione Sovietica, lo raccontò in un articolo. Tutto il mondo rimase sbalordito.
Una storia esemplare dai contorni magici. Da un incontro fortuito tra un uomo avventuroso alla Indiana Jones e uno di scienza, venne scritto un fondamentale capitolo della storia dell’Ortopedia mondiale.
Il libro si legge quasi tutto in un fiato. Anche se denso di una inevitabile terminologia tecnica, non appesantisce l’attenzione del lettore non addetti ai lavori. Senza dubbio un divertente testo per chi vuole saperne di più sull’evoluzione di questa disciplina negli anni a cavallo tra i settanta e gli ottanta e che si sono rivelati determinanti.
Vito Alfredo Surdo ora è in pensione. Si dedica all’attività libero professionale e alla coltivazione dell’olivo.
L’Ospedale di Mirano, dove ha speso gran parte della sua vita umana e professionale, oggi ha chiuso i propri battenti, sacrificato sull’altare della cosiddetta razionalizzazione della Sanità Pubblica.
Come tutte le storie che si rispettino, anche questa ha una sua fine. Con qualche venatura di nostalgia perché narra di tempi eroici e di passioni che non verranno più. Ma certamente non è una storia triste. Perché si narra di uomini che tanto hanno fatto, con il loro quotidiano lavoro silenzioso, per donare ad altri uomini sofferenti una qualità di vita migliore.
Franco Ciro Lo Re