Dopo il pezzo dedicato all’incontro con i detenuti avevo deciso di cambiare registro e occuparmi di qualcosa di più lieve. Dinnanzi allo schermo bianco della pagina word il mio ombelico ha cominciato a dettare altre parole. Avete letto bene, ho scritto ombelico, non pancia, come generalmente si dice quando s’intende parlare di manifestazioni spontanee, urgenti. L’ombelico, epicentro della vita e luogo della maternità. Questa settimana parlo di amore materno, anzi di dolore di madre. Di una madre in particolare. Il collegamento con la mia rubrica mi è stato offerto da una notizia letta su Repubblica, la decisione di dedicare una sala del museo egizio di Torino a Giulio Regeni. Non voglio neppure citare i risultati dell’autopsia, abbiamo tutti sentito delle torture prolungate e inenarrabili che ha subito Giulio prima di morire. Di questa vicenda mi tormenta un solo aspetto: come si sente la madre di questo ragazzo? Come potrà continuare a dormire ogni notte senza sentire le grida di suo figlio, solo, in un paese che non era neppure il suo. A tutti i dolori ci si può abituare, convivere, non a questo. A questo proprio no. Diplomazia, investigatori, responsabili, coperture e presunte verità, cominceranno i minuetti che sempre si ripetono in questi casi, tutte cose inutili a lenire il dolore di una madre, dei genitori e di quanti hanno conosciuto e amato Giulio Regeni. La storia di questo ragazzo, il suo percorso di studi, il suo impegno e persino la sua fidanzata era tutto perfetto, perfetto per divenire martire in questa società liquida. Armato di penna e supportato da un esercito di parole scomode in un regime di torturatori citando il suo libro inchiesta La lunga rivoluzione dell’Egitto. Non era mai finito sulle prime pagine dei giornali per il lavoro straordinario che faceva e aveva scelto di fare. Certi media non si occupano di bravi ragazzi. La regola è sempre quella: una faccia senza sangue non la si inquadra per più di quindici secondi. Ecco, ora possono indugiare, c’è sangue sufficiente per un fermo immagine, lungo quanto sono state lunghe le sevizie che gli hanno inflitto. Ora bisogna parlarne perché c’è in gioco la politica estera, gli stessi rapporti tra Italia ed Egitto. Giulio era un ricercatore, studiava il movimento operaio in Egitto e in quella stanza del museo egizio si custodisce il papiro che testimonia del primo sciopero della storia, ma forse Giulio avrebbe preferito continuare a visitare quella stanza di persona senza la targa con il suo nome in effige. Stava dalla parte dei più deboli, ed è morto come muoiono i più deboli o gli eroi, fate voi, in qualsiasi caso quelli che non hanno santi in paradiso. Dedicare una sala del museo egizio a questo ragazzo non è sufficiente, non mi basta. Per lui chiedo l’intero paradiso, la sala di Dio, se c’è. Questo merita Giulio, e accanto a questa una stanza più mesta per contenere il dolore di sua madre, di tutti quello che lo hanno conosciuto e amato. Si può scegliere di spendere la propria vita per la conoscenza, la ricerca, la cultura del sapere, ma non si può morire in questo modo. Proprio no.
Katia Regina