Avevo preparato un bel discorso. L’unica cosa che ho potuto portare con me, due fogli e nient’altro. Il controllo per entrare dentro un carcere non è molto diverso da quello che viene fatto in aeroporto, salvo poi dover lasciare tutto. Avevo letto diversi libri che narrano esperienze dirette, quelli di Goliarda Sapienza; intrisi di odori e voci dei luoghi reclusi in cui l’autrice stessa era stata. Avevo, avevo… La memoria umana funziona e sistema le emozioni per analogia o contrasto, raramente apre nuove cartelle, quando lo fa, le emozioni provate si ricavano uno spazio nuovo, esclusivo. Lo schianto delle porte di ferro pesante che si sono chiuse alle mie spalle resterà nella mia memoria a lungo termine dentro il vuoto creato dal sobbalzo del mio stomaco. Il gelo di quelle mura ha innescato nel mio cervello un circuito che si è subito smarrito, incapace di trovare analogie di freddo già sperimentato. Il sottofondo di voci diffondeva distorsioni insopportabili, non recitava rabarbaro, rabarbaro, del vociare indistinto. Ho studiato per fare l’educatore, ma questo è stato l’esame più difficile. Mi sono sentita subito inadeguata, con il mio discorsino fatto a casa, sorseggiando qualcosa e fumando una sigaretta. Ho tenuto in mano quei fogli senza avere il coraggio di sbirciarli, non avrei potuto assentarmi con lo sguardo un solo istante. Sarei stata ridicola. I loro occhi erano inchiodati sul mio volto, non avrei potuto spezzare quell’aspettativa. Ho esordito dicendo che avevo una buona notizia: là fuori nessuno è libero, ho detto loro. Una bella trovata per rompere il ghiaccio con persone detenute. La mia ingenuità mi suggeriva una frase d’effetto; il silenzio che ne è seguito mi ha scaraventato dentro una dimensione che non avevo previsto. Il mio bell’attacco non ha mosso di un solo millimetro i muscoli dei loro visi. Solo allora è cominciato l’incontro, dopo il mio ko. Mettersi in gioco, in prima persona, senza tante frasi precotte, raccontare di prigioni altre, a cominciare dalle mie. Alla fine mi hanno salvato i libri, quando parlo di storie da leggere la magia si ripete, sempre. Nonostante sia per loro impossibile leggere in santa pace. Già, anche a questo non avevo pensato. Non ho visto nessuno con la faccia di chi si trova in villeggiatura, come talvolta ci capita di sentire a proposito dei detenuti. Non voglio parlare di spazi inumani, di condizioni inumane, queste cose le sappiamo e vengono periodicamente pubblicate nei dossier che denunciano lo stato delle carceri italiane. Sono riuscita, ma non certo grazie ai miei studi, ad essere convincente, non ricordo neppure cosa ho detto di preciso, è saltata la scaletta che avevo preparato. L’incontro è andato bene, la conferma è arrivata nel momento dei saluti, quando un detenuto si è commosso nel ringraziarmi. La sua voce si è spezzata e, a fatica, è riuscito a dire che era stato bello conoscermi. L’ho abbracciato. Durante il tragitto di ritorno, ho guardato dentro le celle aperte; ho contato fino a quattro letti a castello in uno spazio utile a male pena per uno stanzino; vestiti stesi sulle grate delle finestre. Un delizioso profumino di soffritto invadeva il largo corridoio, qualcuno preparava la cena per sé e per qualche compagno, un gesto quotidiano che si fa in tutte le case, un fatto normale eppure così stridente con tutto il resto. Uno del gruppo, quello più anziano, mi era parso particolarmente silenzioso, quasi distante, alla mia richiesta di un libro che avrebbe voluto leggere ha risposto dicendomi che era frastornato perché non parlava con nessuno da cinque anni, ho pensato che fosse un modo di dire, un’iperbole. Era la verità. Qualcuno di loro mi ha chiesto di tornare, ma io non so se sarà possibile. Vorrei portar loro alcuni libri sulla scorta delle loro indicazioni. In realtà vorrei tornare in quella casa circondariale per rivederli e riuscire a farli ridere, magari con una bella barzelletta, e stavolta, senza stupidi fogli in mano.
Katia Regina