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22/11/2015 08:43:00

L’invenzione (nefasta) dello scontro di civiltà

 

Non che cullassi nell’animo l’illusione che il mio modesto invito alla lucidità venisse preso in benché minima considerazione: certo è che, però, i proclami improntati alla scelleratezza si sono susseguiti in questi giorni di ordinaria follia. Il leitmotiv ricorrente che innerva, accomunandoli, questi insensati pronunciamenti è quello dello “scontro di civiltà” che, a giudizio di molti sedicenti esperti e tuttologi, al contempo teologi, analisti politici e sociologi, si sta consumando. In alcuni casi si tratta degli stessi intellettuali che, con piena ragione, dichiaravano insostenibile la tesi delle radici cristiane dell’Europa e che adesso si presentano quali paladini di una monocultura omologata ed omologante, ripiegata su se stessa e sul proprio malcelato orgoglio che, come insegna la Austen, si accompagna ad un montante pregiudizio verso tutto ciò che rappresenta l’altro da sé. 

Una civiltà europea esiste, va da sé: ma le sue caratteristiche sono profondamente distinte da quelle disinvoltamente sbandierate dai sostenitori di questa sorta di neo-arianesimo. L’Europa, difatti, possiede un’identità plurima e frastagliata, che diverse componenti culturali hanno contribuito a conferirle mediante uno sviluppo millenario e tutt’altro che uniforme, che ha nel meticciato la sua caratteristica peculiare.

L’intreccio che ha portato alla progressiva costruzione ed alla costante ridefinizione di questa identità culturale policroma e perennemente cangiante è figlio di un’osmosi continua tra elementi eterogenei che, a partire dalle conquiste effettuate attraverso il processo di democratizzazione delle istituzioni e della società, hanno dato avvio ad una complessa ma affascinante convivenza.

Convivenza, però, non significa ancora condivisione: l’interculturalità, anche in un Paese laico e civilmente all’avanguardia qual è la Francia, rimane a tutt’oggi un progetto irrealizzato, in luogo del quale ha preso forma un multiculturalismo in cui le identità coesistono in una sorta di mutua indifferenza che non consente loro di ridefinirsi a partire dall’incontro con il diverso.

L’identità europea è insopprimibilmente plurale e, sotto molti aspetti, essa sta tornando a definirsi alla luce dei nuovi mutamenti sociali, in seno ai quali l’appartenenza religiosa costituisce un elemento non trascurabile. Il trionfo della secolarizzazione preconizzato nell’ultimo scorcio del secolo passato non ha in verità avuto luogo e lo studio interdisciplinare del fattore religioso si prospetta sempre più come un obbligo civile e culturale inaggirabile. Soltanto l’approfondita riflessione sulle dinamiche sottese al sacro (come ha ricordato, tra gli altri, il recentemente scomparso René Girard), difatti, può consentire di contrastare l’espansione di un fenomeno allarmante e trasversale qual è il fondamentalismo, la cui matrice non è affatto islamica, bensì ideologica. L’ignoranza del fanatismo non può che essere debellata con l’educazione alla pluralità, la quale soltanto consente di relativizzare i propri convincimenti e di prendere quantomeno in considerazione quelli altrui.

Lo scontro di civiltà da molti paventato, dunque, in verità non esiste. Esiste piuttosto il progetto di una cultura che mira alla formazione di una coscienza critica che rifiuta ogni integralismo ed ogni asservimento a presunte volontà divine fondate su una nefasta (perché cieca) obbedienza. Questa cultura si costruisce nella condivisione degli spazi di formazione che le democrazie laiche hanno costruito con passione e fatica: qui deve abitare anche il confronto interreligioso, il quale non può che essere fondato sulla de-sacralizzazione degli asfittici perimetri confessionali entro cui i fedeli delle diverse religioni sono da secoli abituati ed esortati a muoversi, con i risultati che conosciamo.    

Assai più che a credere fermamente, nella formazione umana come in quella spirituale e religiosa bisogna apprendere a pensare criticamente e a dialogare incessantemente: così soltanto si potrà sottrarre all’egida del fondamentalismo quel controllo sociale e quell’ascendente psicologico che fanno leva sull’asservimento delle coscienze e sull’eteronomia dell’intelletto, dei sentimenti e della volontà, che, mentendo, i fanatici di ogni credo si ostinano a chiamare fede.

Alessandro Esposito – pastore valdese in Argentina - 22 nov 2015