Distratti dal penoso tormentone di Roma, quasi non ci si accorge della tragedia di una terra non meno importante nel definire l’identità del Paese, nel segnarne l’immagine all’estero, nel costituirne la grandezza e la miseria, il mito e il sangue: la Sicilia.
Parlare di tragedia non è eccessivo. L’ex governatore Cuffaro in galera per mafia. Il suo successore Lombardo sotto processo per mafia. Ma, quel che è peggio, l’alternanza politica non ha portato a un vero cambiamento nei costumi, nell’amministrazione, nella legalità. Le inchieste della magistratura stanno spazzando via la nuova classe dirigente dell’isola. Certo occorre attendere le sentenze definitive. Ma già uno dei simboli della lotta alla mafia, l’imprenditore Antonello Montante, è indagato per reati di mafia, l’ex presidente della Camera di commercio Roberto Helg è condannato in primo grado a 4 anni e 8 mesi per concussione, gli arresti si susseguono — da ultimo il presidente di Rete ferroviaria italiana Dario Lo Bosco —, l’impressione è che il peggio debba ancora venire; mentre Rosario Crocetta cambia giunta ogni sei mesi, affondando sempre più in una melma dove i veleni del passato si mescolano a un disastro amministrativo senza precedenti.
Autostrade inaugurate decine di volte sono interrotte per il crollo di viadotti che nessuno ripara. Sulle ferrovie meglio tacere. Messina, una città di 240 mila abitanti, è rimasta senz’acqua per una settimana.
A Palermo consiglieri regionali, che si chiamano l’un l'altro deputato e onorevole e guadagnano più di Obama e della Merkel, traghettano lo stesso sistema di potere da una legislatura all’altra, replicando il triste spettacolo di trasformismo che conferma la profezia di Tomasi di Lampedusa su un cambiamento destinato ad alimentare retoriche ma a non arrivare mai nei fatti. Neppure sfiorati dagli scandali, eppure impotenti di fronte a un disagio sociale giunto alla soglia della disperazione, i sindaci delle due grandi città, Leoluca Orlando ed Enzo Bianco: gli stessi di vent’anni fa. In queste condizioni, se si votasse domani i grillini vincerebbero a mani basse; e non ci si potrebbe proprio stupire. Il paradosso è che la Sicilia non ha mai contato tanto nel Paese. Sono siciliani il presidente della Repubblica, il presidente del Senato, il ministro degli Interni, il commissario
che governerà la Roma del Giubileo, lo scrittore più letto d’Italia (se è per questo, la letteratura del nostro Novecento da Pirandello appunto a Camilleri è soprattutto siciliana; e parlando di grandi artisti non si può dimenticare Franco Battiato, che si illuse all’inizio accettando di entrare nella giunta Crocetta per poi subito disilludersi). Ma non è in questione ovviamente l’importanza della Sicilia per l’Italia, né il talento del popolo siciliano. E neppure l’enorme potenziale di sviluppo, che fa ancora più rabbia. Un solo dato: la Sicilia ha circa gli stessi chilometri di coste delle Baleari, ma ha un decimo dei suoi turisti; mancano voli diretti per il Nord Europa, proprio in questi giorni in cui a Manchester, a Kiel, a Copenaghen, a San Pietroburgo è inverno, mentre a Palermo, a Catania, a Noto, a Pantelleria è ancora quasi estate.
Ma non ci si può limitare alla denuncia. E non è soltanto il governo centrale a dover intervenire con urgenza. La Sicilia deve riconquistare la sua centralità nel dibattito pubblico. E non dobbiamo aver paura di nulla, neppure di mettere in discussione cose all’apparenza scontate, come l’autonomia dell’isola, che all’evidenza ha fallito.
Tre siciliani di formazione e idee molto diverse — Pietrangelo Buttafuoco, intellettuale critico della destra italiana, Claudio Fava, tra i fondatori di Sinistra ecologia libertà e figlio di una vittima della mafia, Fabrizio Ferrandelli del Pd, unico a dimettersi dall’Assemblea regionale dopo l’addio di Lucia Borsellino alla giunta — hanno lanciato una campagna per superare lo statuto speciale e aprire una nuova stagione di responsabilità e sviluppo dell’isola. È un’ipotesi su cui confrontarsi seriamente.