Il percorso di fede di ogni credente ha delle caratteristiche proprie e originali. La peculiarità del mio è che è cominciato a 45 anni. Non troppo pochi per non intendere fino in fondo la portata dell’incontro, né troppi per non poter seguire la novità di vita che mi veniva offerta. Provengo da una famiglia cattolico-romana non credente, e, dunque, non ho ricevuto un’educazione religiosa né, tanto meno, confessionale. Insieme al dono straordinario e rivoluzionario della fede, ho avvertito la spinta irresistibile a restituire la gioia della speranza che avevo ricevuto. Nell’arco di pochi mesi ho chiesto l’ammissione nella chiesa metodista di via Firenze a Roma, per avere una comunità con cui poter pregare e nella quale poter vivere e condividere la fede ricercando l’agape fraterna e sororale.
Contemporaneamente, mi sono iscritta alla Facoltà valdese di teologia, per potermi dotare degli strumenti necessari per argomentare la mia fede.La domanda toccante ed esigente rivolta a Pietro dal Cristo risorto: «Simone di Giovanni, tu mi ami?» l’ho avvertita come indirizzata anche al nuovo sentimento di fede sorto inspiegabilmente in me. La risposta di Pietro, così come la mia, implicano una conseguenza che trae la sua forza dalle parole del Cristo, intese come un invito chiaro a una particolare vocazione di vita. «Pasci le mie pecore», ordina il Risorto al discepolo, e le stesse parole hanno fatto varco nel mio cuore. Gli anni della facoltà, felici sia dal punto di vista dell’approfondimento della Scrittura sia delle relazioni stabilite con professori e studenti, hanno rafforzato in me il desiderio di voler servire la Chiesa come pastore. Ma volere è diverso dal riuscire a svolgere un compito così importante e delicato come quello dell’accompagnamento pastorale; così, oltre ad approfittare degli stages in diverse comunità offerti dalla cattedra di teologia pratica, ho ampliato la mia formazione frequentando un corso per accompagnatori volontari in un hospice dove, poi, ho prestato servizio per circa due anni.
Quell’esperienza importantissima mi ha dato modo di accompagnare i malati nel momento radicale della morte, lì dove la nostra vita acquista un senso compiuto o lo perde nell’oblio definitivo. La mia fede, che ho cercato di vivere con queste persone, ha aggiunto con delicatezza, a volte anche solo con la preghiera silenziosa, la prospettiva della luce pasquale che regala valore al qui e ora prima ancora che al poi.
È proprio perché il nostro sguardo credente si apre a un poi, che il nostro presente acquista significato pieno e incancellabile. Nulla di quello che siamo stati viene vanificato, ma piuttosto accoglie una trasformazione che la potenza dell’amore di Dio opera in noi. Ed è proprio la prospettiva di prosecuzione nell’abbraccio della grazia, quella grazia che ci conduce a una vita oltre la vita, che ci invita con chiarezza ad assumere un atteggiamento responsabile nell’oggi. Questa responsabilità, da agire nella ricchezza di una vita abbondante di senso nel qui e ora, è quello che nel mio accompagnamento pastorale tento di proporre. Penso che fare il pastore, essere pastore, non si limiti solo a trasmettere il corretto contenuto di una fede, a volte forse necessitante di qualche approfondimento, ma sia soprattutto dedicarsi ad accompagnare e sostenere i fratelli e le sorelle nel percorso gioioso ma spesso anche tanto doloroso della loro vita.
L’esperienza maturata nei diversi ambiti professionali in cui ho svolto le mie attività lavorative precedenti, lo studio accademico in altri campi del sapere in aggiunta a quello teologico, mi pare riverberino di risonanze arricchenti il mio servizio ministeriale oggi.
In questi due anni di prova ho cercato di dare corpo e voce alla fede in cui credo, accompagnando nella vita cristiana i fratelli e le sorelle di chiesa delle comunità di Forano, di Trapani-Marsala e Palermo-Noce. Volti, sensibilità, esistenze che hanno screziato di nuovi colori la mia. Io ho accompagnato loro, e loro hanno accompagnato me nel progredire verso la consapevolezza che vivere il ministero pastorale è il mio modo di testimoniare.
Mi piace entrare in relazione empatica con le persone, cercando sempre, però, di portare, là dove necessario, una parola che non sia mia, ma che provenga dal Vangelo. La mia fiducia risiede nella speranza di operare, al di là delle mie forze, delle mie convinzioni, delle mie capacità, sulla scia dell’azione dello Spirito, che parla e agisce attraverso la Scrittura. Il servizio che propongo di offrire alla Chiesa è quello di testimoniare il senso inedito e il valore irriducibile dell’esistenza umana alla luce dell’annuncio della Pasqua.
È per questo che chiedo di essere consacrata: per servire il Cristo risorto.
Eleonora Natoli