Un pacchetto ben confezionato l’ultimo film di Alejandro Iñárritu, Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza). 4 oscar per miglior: film, regia, sceneggiatura e fotografia. Girato in un unico piano sequenza in cui giorno e notte si susseguono, narra dell’esistenza volta verso il declino di una star del cinema americano, Riggan Thomson. Egli, che era diventato famoso per aver impersonato il supereroe alato Birdman, è adesso ridotto al lastrico: “a quanto pare la mia salute ha superato i miei soldi”. Tenta, quindi, di sparare la sua ultima cartuccia dedicandosi al teatro e a Broadway debutterà con la sua riscrittura del testo Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Carver – amore che Riggan non è capace di dare neanche alla figlia. In una sorta di delirio di onnipotenza è regista, attore e protagonista del suo spettacolo. Il film narra, quindi, delle anteprime alla stampa, in cui ogni sera succede qualcosa di diverso (in una trasposizione ben più noir e volgare di Rumori fuori scena) fino al climax finale, tra dialoghi frizzanti, litigi, tradimenti, pugni in faccia, battute sagaci, attrazioni fisiche quasi animalesche di chi cerca affetto ovunque lo possa trovare…in un pot-pourri di rapporti umani (ex moglie, padre/figlia, amante, rivale, migliore amico, etc etc).
Insieme all’ottima regia, una bella e varia colonna sonora, accenni alla lirica e soprattutto il battito della vita nei tamburi che intervallano e animano numerose scene. Interessante l’idea di girare quasi tutta la storia dentro al teatro, con il pretesto che è lì che il protagonista vive, luogo claustrofobico e paradossalmente tutt’altro che artistico; zozzo e polveroso, quasi cadente nei labirintici spazi dietro le quinte. Bizzarra e azzeccata l’invenzione della voce interiore che parla a Riggan, a volte con la sincerità della coscienza che ricorda i fallimenti, a volte con la follia del puro istinto che lo spinge a volare - letteralmente - più in alto nelle scene surreali.
Detto ciò, abbiamo ancora voglia di assistere ai drammi esistenziali dell’ennesima celebrità arida e depressa? Siamo ancora interessati a capire come e perché spendano il loro denaro in alcol, droghe e centri di disintossicazione? Ci stupisce, forse, nelle nostre vite quotidiane fatte di lavoro e pochi risparmi, che la fama faccia perdere all’essere umano la percezione della realtà e renda più difficili i rapporti interpersonali?
Ma soprattutto dove è finito il regista di Amores Perros (2000) e il realismo crudo con cui narrava i problemi di sopravvivenza della gente comune? Dove sono finiti gli intrecci di storie di Iñárritu, il suo Messico, il peso dell’anima (21 grammi del 2003), i sentimenti di Babel (2006)?
Capace di concentrare messaggi profondi anche in una pubblicità di due minuti – si veda Best job, lo spot che ha diretto nel 2012 per la Procter & Gamble in occasione delle Olimpiadi di Londra 2012 con la musica di Ludovico Einaudi – è possibile che, dopo tante nomination rimaste tali, il regista vinca l’oscar proprio per la sua opera meno originale? E già, perché se si dovessero apporre delle etichette, proprio come fa in Birdman il personaggio dell’austera signora che si occupa di critica teatrale, quest’ultimo lavoro sarebbe un film divertente e inconsistente.
Sabrina Sciabica