Per quanto non dichiarata, fu una guerra ad altissima intensità. Si combatté in Sicilia fra il 1943 e il 1950, tra lo sbarco degli anglo-americani e l'uccisione di Salvatore Giuliano. Il numero finale dei caduti, malgrado manchi una contabilità ufficiale, oscilla tra i 1500 e i 2000: soldati, carabinieri, poliziotti, mafiosi, banditi, indipendentisti, fascisti, comunisti, sindacalisti, poveri cristi. Di volta in volta cambiarono i pupi e gli scenari, mentre il puparo rimase sempre il Partito unico siciliano, il Pus (massoni, imprenditori, boss di Cosa Nostra, politici di ogni colore, giudici). E suoi alla fine furono i guadagni. Come avrebbe sancito Totò Riina: "Per fare la pace, bisogna prima fare la guerra".
E questa guerra non dichiarata viene ora raccontata nell' ultimo libro di Alfio Caruso, giornalista e scrittore catanese, trapiantato a Milano, autore di numerosi saggi e romanzi. "Quando la Sicilia fece guerra all' Italia", questo il titolo del saggio, edito da Longanesi (pag. 315, euro 17, ma anche in E-book) ha tra l' altro il pregio di chiarire come tutte le guerre di mafia ed in ultima analisi, lo stesso dibattito contemporaneo sulla mafia siciliana, costituisca l' ultimo, ed in qualche misura necessitato, esito di quella terribile stagione a cavallo tra guerra e transizione dalla monarchia alla repubblica. Furono sette anni di anarchia e terrore indiscriminato con lo Stato ospite indesiderato. Cominciarono gli indipendentisti, cioè i grandi proprietari terrieri e i nobili per difendere anche i centimetri dei latifondi. Proseguirono gli agitatori fascisti per sabotare la leva obbligatoria in favore dell'esercito della nuova Italia. Poi avvennero le rivolte contro la politica dell'ammasso, la guerriglia per il pane, la ribellione di Catania, di Comiso, di Piana degli Albanesi, di Vittoria, di Ragusa, di Giarratana, di Scicli, di cento altri comuni, dove l'esercito per ristabilire l'ordine fu costretto a utilizzare mitragliatrici, cannoni, blindati.
In un misterioso agguato venne ucciso il personaggio più singolare di tutti, il professore universitario Antonio Canepa: nella sua breve vita aveva preparato un attentato a Mussolini, ne era diventato uno sperticato agiografo, aveva guidato la cellula dello spionaggio britannico nell'isola, aveva infiammato con un libello i cuori degli indipendentisti, si era clandestinamente iscritto al Pci. A intorbidare le acque provvidero la congiura per instaurare a Palermo una monarchia con i Savoia e l'arruolamento nell'Esercito dei volontari per l'indipendenza siciliana, Evis, della banda Giuliano a ovest e di quella dei niscemesi a est. Ne sarebbero discesi la strage di Portella delle Ginestre e quella degli 8 carabinieri di feudo Nobile, sulle quali da quasi settant'anni proseguono misteri e depistaggi. Nell'ombra tramavano i grandi boss della mafia. Avevano individuato in Giuliano lo strumento perfetto dei propri disegni, lo fecero diventare il pericolo pubblico numero uno onde poter ricattare le Istituzioni e contrattare il prezzo della consegna, il più alto possibile: l'inossidabile alleanza fra la disonorata società e rappresentanti dello Stato, che sarebbe proseguita per oltre mezzo secolo. Naturalmente Giuliano mai sarebbe potuto arrivare vivo in un'aula di tribunale