“Gia’ nel 1987 cosa nostra progettava, oltre all’omicidio di Giovanni Falcone, anche quello di Paolo Borsellino. Me lo disse Balduccio Di Maggio”.
Lo ha detto deponendo al processo per la trattativa Stato-mafia il collaboratore di giustizia Angelo Siino, nel corso del controesame condotto dall’avvocato Basilio Milio, difensore dell’ex generale dei carabinieri Mario Mori.
Siino, in video conferenza da un sito riservato, e’ collegato con l’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo, dinanzi alla Corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto. In aula per l’accusa il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e il sostituto Roberto Tartaglia.
“In quell’anno, il 1987, accompagnai Balduccio Di Maggio col motoscafo -ha proseguito Siino- nei pressi di Marina Longa. Chiesi la ragione, sapendo che nei pressi villeggiava il dottore Borsellino. E lui mi disse che c’era questa ipotesi. Dissi che era una follia ma Di Maggio -ha sostenuto Siino- rispose che si doveva fare. In seguito a queste notizie apprese da Balduccio Di Maggio io in quel periodo scappai in Tunisia”, ha aggiunto il pentito.
Ucciso Falcone il 23 maggio ‘92, «ho saputo - continua Siino - che Borsellino volle occuparsi del rapporto mafia e appalti del Ros perché lo riteneva come una delle cause della strage di Capaci. Il boss Salvatore Montalto mi disse: "Ma cu ciù porta a chistu? Ci rovinerà". E anche il senatore Silvio Coco mi disse: "Dobbiamo stare tutti attenti". Borsellino voleva capire il meccanismo dei rapporti tra politici, imprenditori e mafiosi nel settore degli appalti pubblici. Sapevo che alla Procura di Palermo era arrivata un'informativa da Milano da parte del pm Antonio Di Pietro su un "pizzino" trovato nella cassaforte di una banca svizzera e sul quale c'era scritto il mio nome. Gli appalti erano il chiodo fisso di Borsellino. Il procuratore Giammanco lo venne a sapere e diceva che Borsellino avrebbe sconvolto il sistema degli appalti. Non ho elementi per dire che la morte di Borsellino sia collegata all'inchiesta su mafia e appalti. Il boss Bernardo Brusca in carcere mi chiese se sapevo qualcosa della strage di via D'Amelio e se c'erano state sollecitazioni esterne. Risposi di no. Io però ritenevo che il problema riguardava il gruppo Gardini e tutte le altre imprese che avevano interesse perché non si parlasse di appalti e che tutto ciò avesse affrettato l'attentato contro Borsellino».
Gli allora colonnello Mori e capitano Giuseppe De Donno (quest'ultimo pure imputato) sollecitarono in ogni modo Siino a collaborare. «Mi dissero - ricorda - che anche Vito Ciancimino (il defunto ex sindaco mafioso di Palermo, ndr) stava collaborando e che sapevano tutto degli appalti. Lo incontrai a Rebibbia. "Angelo ci hanno fottuti, ce l'hanno messo in quel posto" mi disse. Riina detestava Vito Ciancimino, che non era "uomo d'onore", perché era arrogante con lui e Provenzano. Il figlio Massimo (pure imputato e teste dell'accusa, ndr) era uno spendaccione. Fu il padre a incaricarmi di fare sapere in giro di non fargli più credito. Dentro Cosa nostra Massimo era considerato uno zero, perché era uno spaccone e tendeva a mettersi nei guai. Pino Lipari, l'ambasciatore di Riina e Provenzano per gli appalti, mi disse che era un vagabondo, un po' farfallone, una testa in aria».
«Dopo l'arresto di Salvatore Riina - continua Siino - Bernardo Provenzano aveva una grande paura di Leoluca Bagarella, perché sospettava che lui avesse avuto un ruolo nella cattura del cognato». Sia Riina che Bagarella sono imputati al processo. Come Giovanni Brusca, il capomafia pentito di San Giuseppe Jato, che «una settimana prima di essere catturato, nel marzo del ‘96, mi annunciò - aggiunge il collaboratore - che se lo avessero arrestato si sarebbe pentito. Non solo, ma dopo l'arresto mi fece sapere, tramite il cognato e Franco Costanza, che stava collaborando e di dire a Provenzano latitante di spostarsi dal suo rifugio. Io restai allibito».
Mafia e politica. «Claudio Martelli - riferisce Siino - fu appoggiato da Cosa nostra nell'87. Ci fu un accordo sollecitato da Raoul Gardini (l'imprenditore coinvolto nella tangentopoli milanese morto suicida, ndr) tramite Nino Buscemi che ne parlò a Riina. Fu stabilito che Cosa nostra avrebbe votato per il Psi, nelle regionali dell'86 e nelle nazionali dell'87. Il giudice Falcone, si vociferava, aveva saputo dell'accordo e che aveva ricattato Martelli sollecitandolo a mettersi a sua disposizione oppure che avrebbe parlato pubblicamente dell'accordo. Mi sembrò una cosa iperbolica». E ancora: «Nitto Santapaola era contrario all'omicidio del presidente della Regione Rino Nicolosi. Nella sua zona, diceva, non doveva succedere niente. Giovanni Brusca mi confermò che poteva uccidere Nicolosi ovunque, tranne che a Catania».