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17/10/2014 09:11:00

Caro Mancuso: perché giocare al ribasso?


La vita mi ha concesso il privilegio (e lo dico senza piaggeria) di conoscere personalmente il professor Mancuso, di cui stimo l’umiltà e l’onestà intellettuale.

Nel suo ultimo articolo apparso in data martedì 14 ottobre sul quotidiano La Repubblica, il professor Mancuso stila un’analisi del sinodo dei vescovi work in progress, per valutare la quale non dispongo degli strumenti sufficienti, né, a differenza dell’autore, dell’adeguata conoscenza del contesto in oggetto.

Ciononostante, le considerazioni effettuate dal Nostro mi paiono eccessivamente ottimistiche, specie in ragione dei presunti risultati conseguiti ai quali lo stimato Mancuso fa cenno. A suo giudizio gli innegabili progressi coinvolgono nello specifico tre ambiti: li enumero brevemente.

 

In prima istanza l’autore sottolinea positivamente la (sia pur tardiva) capacità dimostrata dal sinodo di – cito – «cogliere la realtà positiva dei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, delle convivenze». Sebbene ciò rappresenti senza alcun dubbio un passo in avanti rispetto all’oscurantismo wojtyliano-ratzingeriano, non mi sembra si tratti d’altro che di semplice buon senso, espresso oltretutto fuori tempo massimo: non è che il mero, inevitabile riconoscimento di una situazione di fatto, che il cattolicesimo istituzionale non può più misconoscere (l’ha fatto fino a quando ha potuto).

Inoltre l’impressione di un non cattolico è che l’avallo e la liceità costituiscano l’intramontabile prospettiva entro cui in Vaticano si pretende di confinare la vita civile, la quale, al contrario, già da tempo non chiede alcun nihil obstat, sebbene oltretevere s’affannino ancora a dispensarlo.

In seconda battuta il professor Mancuso menziona «le famiglie definite “ferite”, cioè che presentano casi di separati, divorziati non risposati, e divorziati risposati», circa i quali ultimi si apre uno spiraglio in ordine all’attuale esclusione dalla partecipazione ai sacramenti, per quanto, si affrettano a chiarire i vescovi “liberali” (figuriamoci se si autodefinissero conservatori), «l’eventuale accesso ai sacramenti occorrerebbe fosse preceduto da un cammino penitenziale». Sarò malevolo, ma intravedo in quest’ultima, aberrante affermazione, la reiterata sentenza di condanna nei confronti di chi abbia, sovente con motivi del tutto legittimi e ad ogni modo insindacabili, deciso di porre fine ad una relazione matrimoniale incrinata e frustrante, quando non addirittura violenta.

Conclude il professor Mancuso rimarcando il fatto che, a suo giudizio, «i toni e le parole più innovativi riguardano il terzo ambito (…) cioè le persone omosessuali», che, secondo l’esimio parere del cardinal Erdõ, «hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana». Trasecolo: non l’avevo mai supposto. E con me, immagino, una folta schiera di esseri pensanti e, prima ancora, senzienti.

Ovviamente, nessuna illusione: l’equiparazione delle coppie omoaffettive (termine ignoto ai vescovi, la cui monomania in ordine a tutto ciò che concerna il sesso è nota) a quelle etero affettive è fuori discussione. Di più: a parere di Mancuso tale pari dignità rappresenta «un passo, io penso, che obiettivamente non si può chiedere alla Chiesa cattolica (personalmente utilizzerei l’iniziale minuscola: non me ne voglia)». E perché no? Troppo audace? E che cosa le si dovrebbe chiedere, allora? Che continui imperterrita nel suo finto progressismo pseudo caritatevole?

Sarei tentato di sorvolare circa la prospettiva proposta in ordine a quest’ultimo tema dall’episcopato cattolico: quella, cito nuovamente, di un «mutuo sostegno fino al sacrificio». Mi perdoni, caro Mancuso, ma questa visione non ha nulla a che spartire con l’amore: non solamente con quello di coppia, omo o etero che sia, ma nemmeno con l’agape cristiana nel suo senso più autentico, che è condivisione, non auto immolazione.

In conclusione, riecheggia in me un quesito che non trova risposta: perché, stimato Mancuso, accontentarsi di queste briciole che dovrebbero indignare assai più che soddisfare un genuino desiderio di riforma? Perché, in fin dei conti, giocare al ribasso e contentarsi di un cambiamento simulato e superficiale, che riguarda più i toni che non i contenuti? Forse mi illudo: ma dal cattolicesimo liberale m’attendo ben altre rivendicazioni e provocazioni. O, quantomeno, una traccia visibile di spirito critico.

Alessandro Esposito (pastore valdese in Argentina) - pubblicato in prima pagina su micromega-online del 16 ottobre 2014