Forse Totò Riina sapeva, o poteva immaginare, di essere intercettato nei suoi colloqui all’«ora d’aria», come pensa qualcuno; o forse, come ritiene qualcun altro, non lo sapeva ma confidava che quel compagno di detenzione così insistente nel suggerirgli argomenti di discussione, avrebbe poi trasmesso all’esterno le sue «rivelazioni». Oppure niente di tutto questo: parlava solo ad uso e consumo del suo Ego e dell’immagine che voleva dare di sé all’interno del carcere. In ogni caso - che comunicasse per veicolare i suoi messaggi o per sfogo personale - le parole del capomafia hanno un peso. Fuori dall’organizzazione criminale, ma soprattutto dentro. Per le minacce e gli improperi contro i suoi nemici, dai magistrati ai preti antimafia, e forse anche per la ricostruzione di certi episodi. Tuttavia l’aspetto più rilevante, qualunque fosse il grado di consapevolezza del boss sulle microspie che lo stavano registrando, è probabilmente quello che coinvolge i rapporti interni a Cosa nostra. In primo luogo i giudizi del Capo corleonese sugli altri padrini, e in particolare su uno, il super-latitante (tra i responsabili delle stragi in continente del 1993) considerato il suo successore al vertice della mafia del terzo millennio: Matteo Messina Denaro, il primo ricercato d’Italia, uccel di bosco da oltre vent’anni. Magistrati e investigatori lavorano senza sosta alla sua cattura, convinti che questo cinquantaduenne originario di Castelvetrano, in provincia di Trapani, sia il vero erede del «capo dei capi». Il quale però, nei colloqui intercettati un anno fa nel cortile del carcere milanese di Opera, esprime opinioni e considerazioni tutt’altro che lusinghiere sull’ex ragazzo che l’ha sostituito in cima alla lista dei «pericoli pubblici». Il 30 ottobre 2013, Riina quasi si rammarica di quello che sta per affermare, ma poi non si contiene: «A me dispiace dirlo questo... questo signor Messina (cioè proprio lui, Matteo Messina Denaro, ndr ), questo che fa il latitante, che fa questi pali... queste...». Lorusso gli viene subito in soccorso: «Pali eolici», riferendosi agli investimenti del boss trapanese nelle energie alternative svelati da inchieste giudiziarie, notizie di stampa e trasmissioni televisive. E Riina riprende: «Eolici... i pali della luce... se la potrebbe mettere nel...» e giù espressioni volgari. Poi prosegue: «Questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa di...». Pensa solo a se stesso, lo accusa in sostanza il Corleonese; non dà più affidamento dal punto di vista dell’organizzazione mafiosa: «Se ci fosse suo padre buonanima (il boss «Ciccio» Messina Denaro, ndr ), un bel cristiano, che ha fatto tanti anni di capomandamento a Castelvetrano, a lui gli ho dato la possibilità di muoversi libero». Matteo invece no. Lui stesso lo ha cresciuto, sostiene Riina, e all’inizio prometteva bene. Ma poi ha preso un’altra strada: «Questo figlio lo ha dato a me per farne quello ne dovevo fare. E’ stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia, tutto in una volta.... Si è messo a fare la luce... E finì, e finì... Fa luce! (...) E a noi ci tengono in galera, sempre in galera, però quando siamo liberi li dobbiamo ammazzare». La scomunica del Capo sembra netta, anche alla luce della considerazione che segue: fuori dal carcere non c’è più nessuno deciso a continuare la guerra allo Stato che lui aveva cominciato. «Se ci fosse stato qualche altro avrebbe continuato - dice Riina -. E non hanno continuato, e non hanno intenzione di continuare». A cominciare dall’ex ragazzo di Castelvetrano, di cui ha perso il controllo: «Una persona responsabile ce l’ho - spiega il 4 settembre 2013 - e sarebbe Messina Denaro, però che cosa per ora questo, che io non so più niente». E in un’altra conversazione, due settimane più tardi: «Potrebbe essere pure all’estero... L’unico ragazzo che poteva fare qualcosa perché era dritto... Non ha fatto niente... un carabiniere... io penso che se n’è andato all’estero». Come un vero capomafia non dovrebbe fare. Vero o falso che sia, Totò Riina ha sconfessato il suo presunto erede. Checché ne pensi l’interessato, il popolo di Cosa nostra - o quel che ne resta - ora è avvisato.
Giovanni Bianconi