di Leonardo Agate - Nino Di Girolamo, che abitava il palazzotto alla Spagnola sul nostro piano Vaiarassa, é morto la mattina del 9 agosto a Milano. Mentre ero fuori in vacanza, meno di due mesi fa, si é sentito male e l'hanno ricoverato all'ospedale Paolo Borsellino di Marsala. Poi é stato trasferito in un ospedale di Palermo. Là é stato operato, ma inutilmente. Il cancro era mortale. La figlia Raffaella con il marito é venuta a stare qua alcuni giorni. Non potendolo lasciare solo in quelle condizioni, l'hanno portato con loro a Milano. Qualche giorno prima del suo ultimo viaggio terreno, sono andato a salutarlo. Era sulla sdraio in pigiama nel soggiorno, debole ma lucido. Sempre educato, ha fatto sforzi per alzarsi ed abbracciarmi fraternamente. Gli ho lasciato alcune copie di miei articoli recenti, come facevo di tanto in tanto, e lui apprezzava.
So che a Milano é stato ricoverato una decina di giorni al Niguarda. Una sera ho avuto per telefono la ferale notizia da Raffaella. Ha chiesto di essere seppellito al Cimitero di Marsala. Così il feretro é arrivato martedì 12 agosto, e la cerimonia dell'ultimo saluto é avvenuta la mattina del 13. Al Cimitero c'erano la moglie e i figli oltre a parenti ed amici.
Nato nel 1927, aveva compiuto da poche settimane 87 anni. Una vita si può vivere in tanti modi. Lui ha scelto di viverla in modo indipendente, per quanto lo potesse consentire la famiglia che ebbe. L'ha vissuta con decisioni a volte sofferte, ma senza rimpianti. Certi pomeriggi, che l'estate era finita, e i villeggianti erano andati via, e la campagna sembrava solitaria nella diffusa ruggine del colore delle foglie secche dei vigneti, andando a prendere la macchina posteggiata nel piano, Nino mi sentiva passare e scendeva per scambiare quattro chiacchiere. Mi piaceva ascoltarlo.
A volte qualcuno mi ha chiesto come mai Nino preferisse stare mesi e mesi qua da solo, lontano dalla famiglia che risiedeva a Milano. Rispondevo che questo gli piaceva fare, e questo faceva.
Non ha avuto elargiti dalla sorte solo rose e fiori. Con l'altro fratello, Angelo, era figlio di Aurelio, primo cugino di mio padre, e della moglie Annita, insegnante, di stirpe messinese. Cresciuto in città e in questa Contrada fino alla Seconda guerra mondiale, una bomba sganciata dalle Fortezze Volanti alleate, alle undici di mattina dell'11 maggio 1943, scoppiando ostruì l'uscita del ricovero della Villa del Rosario e fece 300 morti, mandando prematuramente al cielo anche suo papà. Mi ha raccontato, Nino, che quella mattina - che già gli alleati avevano iniziato la strategia dei bombardamenti sulle città italiane - erano sfollati qua in campagna, come molte famiglie nelle varie Contrade, ma il padre era in città perché dipendente comunale. Al suonare delle sirene di allarme, Aurelio si era recato con altri al ricovero che divenne trappola. Da questa Contrada si vedevano i fumi alti sulla città bombardata. La mamma e i nonni mandarono Nino, ragazzo, in città alla ricerca del padre. Dietro indicazioni di conoscenti, riuscì ad arrivare al ricovero. Il corpo di Aurelio era stato sistemato dai soccorritori sulle macerie esterne del ricovero. Nino lo vide, ma non poté avvicinarsi più di tanto. I militari tedeschi glielo impedirono. Nino tornò qua a casa ma non ebbe la forza di riferire. Si tenne sul vago, che non era riuscito a rintracciare papà. La notizia arrivò dopo ore con altra persona.
Morto il babbo, Annita decise il trasferimento a Messina, dove i due figli frequentarono l'università. Nino si laureò in Giurisprudenza, iniziò a fare l'avvocato e si trasferì, giovane avvocato, a Milano, che allora - anni '50 - trainava l'economia del Boom. Ebbe successo da avvocato, con studio, dopo gli anni di gavetta, in via Montenapoleone. Fu anche avvocato di fiducia della Toro Assicurazioni. Ma non trascurava la vita godereccia dei borghesi di antico lignaggio. Con amici del suo ambiente, per lo più professionisti di successo - Il presidente dell'Ordine degli Avvocati di Milano, alcuni magistrati - andava a epiche battute di caccia con seguito di mangiate, fin sulle Langhe.
A Milano trovò moglie: Edy, milanese, figlia di un piccolo industriale. Un cognato aveva una bella tenuta in Toscana, dove Nino andava a volte con la famiglia. Con Edy ha avuto tre splendidi figli. Raffaella é gemella con uno dei due maschi, Stefano; l'altro maschio é Fabio.
Il menage familiare durò alcuni decenni senza particolari incrinature. Poi, i figli già grandi, l'età dei genitori verso la pensione....proprio vicino alla pensione, Nino decise di ristrutturare la vecchia casa della Spagnola, nel frattempo per metà a lui pervenuta per eredità dallo zio Andrea e per metà acquistata dall'altro coerede, suo fratello Angelo. Vi dovette spendere un bel po' di soldi, essendo ridotta quasi un rudere. Era mosso dal pensiero di venirci a passare le belle estati, fra i ricordi della giovinezza. I primi anni che il palazzotto di Spagnola fu di nuovo abitabile, una ventina e più di anni fa, Nino ci veniva d'estate con Edy. Lei si fermava un paio di settimane, poi ripartiva. Lui restava più a lungo. Fino a quando, passati altri anni, lei non venne più e lui ci restò sempre più a lungo: tre mesi, sei mesi, otto mesi...
Di solito la stagione invernale la passava a Milano. Sosteneva che andava a svernare all'incontrario. In verità in pieno inverno qua si diradavano la compagnia e gli inviti amicali. Aveva bisogno pure di quelli, e a gennaio o a febbraio trovava più calore nella metropoli.
La mattina del seppellimento Raffaella mi ha detto che la lapide riporterà, come da volontà più volte espressa da Nino, la seguente iscrizione: "Visse quasi come volle". In questa frase si riassume, con buona dose di ironia, la sua filosofia.