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14/06/2014 03:24:00

Di Matteo a Bagarella: "Per mio figlio devi pagare fino all'ultimo"

«Bagarella, che cosa hai fatto? Questo bambino, mio figlio, lo devi pagare fino all'ultimo giorno». La tragica vicenda di Giuseppe Di Matteo, sequestrato a 12 anni il 23 novembre 1993 e strangolato e sciolto nell'acido l'11 gennaio 1996, dopo 779 giorni di durissima prigionia, per indurre il padre pentito a ritrattare le rivelazioni sulla strage di Capaci, irrompe con violenza nel processo sulla trattativa Stato-mafia. E' Mario Santo Di Matteo "mezzanasca", il padre di Giuseppe, a rivolgersi con veemenza al boss Leoluca Bagarella, uno degli imputati. Sta deponendo, come teste assistito, collegato in videoconferenza, rispondendo alle domande dei pm Nino Di Matteo, Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia. Santo Di Matteo si rivolge direttamente a Bagarella. Il presidente della Corte d'Assise, Alfredo Montalto, lo redarguisce: «Lei - gli dice - non può rivolgersi dagli imputati. Il codice lo vieta». «Mi deve scusare, presidente - gli risponde il teste - ma ho davanti a me le persone che hanno ucciso mio figlio», riferendosi a Giovanni Brusca e a Leoluca Bagarella, accusati, processati e condannati per avere ordinato l'eliminazione dell'ostaggio innocente. «Hanno dato da mangiare e da bere a mio figlio - aggiunge Di Matteo - e poi lo hanno ammazzato. Bagarella ci giocava pure con mio figlio e poi lo ha ammazzato. Se il tronco è malato, perché tagliare i rami? Aveva due collaboratori a casa sua, perché non se la prendeva con loro? Che cosa hai fatto Bagarella? Lo pagherai fino all'ultimo centesimo, fino all'ultimo giorno. Perché non veniva a cercare me? Invece si è preso un povero innocente».
Parole ripetute nel controesame dell'avvocato Giovanni Anania, difensore di Totò Riina. «Lei - chiede il legale a Di Matteo - prova odio nei confronti di Bagarella e Riina? ». «Odio? Avvocato - risponde - se le manca la cosa più cara, che cosa pensa? Non dovevano farlo. Pagheranno fino all'ultimo giorno. Questa ingiustizia la dovrete pagare. Fino all'ultimo centesimo. Si sono fatti male i conti. Mi dispiace perché Bagarella ci giocava con mio figlio e poi lo ha ammazzato».
Nel processo sulla trattativa si affronta anche l'omicidio dell'europarlamentare Dc Salvo Lima, ucciso a Mondello il 12 marzo 1992. Ecco perché la competenza è della Corte di Assise. «Lima e Ignazio Salvo (l'ex esattore assassinato a Santa Flavia il 17 settembre 1992, ndr) - spiega Di Matteo, "uomo d'onore" della cosca di Altofonte dal 1978 e autore confesso di vari omicidi - sono stato uccisi perché non avevano rispettato i patti con Cosa nostra. I patti tra i politici e Totò Riina. Non si erano interessati del maxiprocesso e allora sono stati uccisi. Salvo e Lima si dovevano adoperare per non fare condannare i mafiosi imputati. La decisione fu presa da Riina. Era lui il capo della "cupola" di Cosa nostra. Sia per Ignazio Salvo che per Lima la decisione fu la stessa. Dovevano morire».
Di Matteo ricorda che durante i preparativi della strage di Capaci, aveva più volte espresso dei dubbi: «Anche noi capivamo che era tutto sbagliato. Non c'era bisogno di fare morire tante persone. Erano tutti impiegati dello Stato che sono saltati in aria. Ma per quale scopo? Riina, se ce l'avevi con Falcone, perché uccidere tutte quelle persone? Alla fine non si è concluso niente, alla fine ci ha rovinato a tutti. Fare tutto questo chiasso. Non sono atti mafiosi, sono atti terroristici. La mafia non si sarebbe mai permessa di fare un atto così. Sono morti pure bambini e donne incinte e parlo pure di mio figlio».
«Tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio - continua Di Matteo rispondendo alle domande dei pm - Giovanni Brusca si incontrò con Giuseppe Graviano (il boss del quartiere palermitano di Brancaccio, ndr) diverse volte a casa mia ad Altofonte. Inoltre, una volta venne Antonino Gioé ("uomo d'onore" di Altofonte coinvolto nell'"attentatuni" di Capaci e suicida nel carcere romano di Rebibbia il 29 luglio 1992, ndr) a prendersi dei telecomandi. Mi disse che glielo aveva detto Brusca di venire. Erano per Graviano».