In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Questa similitudine disse loro Gesù, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». (Gv 10, 1-10)
La bibbia conosce infiniti nomi di Dio. Nel tentativo di dare un volto alla Sua presenza e di riconoscere e descrivere la Sua azione e il Suo amore, gli autori biblici cercano, dentro l’esperienza della vita del loro tempo, le immagini e le metafore più espressive. Una di queste è certamente quella del pastore amorevole di cui il Primo Testamento ci lascia una preziosa testimonianza. Questi è colui che si prende cura del suo gregge, che conosce le sue pecore ad una ad una, con i loro bisogni, le loro fragilità, il loro “temperamento”, il loro passo veloce o zoppicante.
Il pastore affidabile conosce i pericoli dei sentieri, le insidie del cammino, i percorsi scoscesi e i dirupi; sa dove si trovavano le sorgenti d’acqua e dove ci sono zone aride e brulle oppure erbose. Anche la notte il suo cuore e i suoi occhi sono attenti al minimo rumore sospetto. A volte il pastore si carica sulle spalle la pecora zoppicante o ferita ...
Un buon pastore ama, dunque, il suo gregge, lo guida saggiamente verso i pascoli sani e nutrienti e, all’occorrenza, sa difenderlo. Così Dio viene presentato come il pastore che con amore e tenerezza guida il suo popolo e ha cura delle pecore più deboli. In Israele, proprio meditando sul simbolo della cura amorevole che la parola “pastore” rappresenta, vengono chiamati pastori tutti coloro che con dedizione e sollecitudine, con premura e disinteresse si prendono a cuore le sorti del popolo, dei più deboli e indifesi.
Il “modello” è alto; addirittura è Dio. Il pastore buono è chi, in qualche modo, cerca di amare come Dio ama Israele. Gli altri, contro i quali la bibbia profferisce giudizi severi e scaglia anatemi terribili, sono definiti “cattivi pastori”.
(v. Ezechiele 34, 1-10). Ed è proprio contro questi sedicenti pastori, ossia contro i capi religiosi di Israele che pensano “a pascere se stessi”, cioè ai propri interessi, che si rivolge apertamente Gesù in questo brano, descrivendoli con le stesse caratteristiche dei lupi. Come questi, infatti, essi sono dei ladri e dei briganti. Per capire la portata del capitolo 10 di Giovanni, bisogna tenere presente soprattutto che Gesù rivolge questa dura invettiva più in concreto contro i farisei con i quali si è scontrato curando il cieco nato (Gv 9, 1-41). Costoro, che hanno preteso essere le guide del popolo, imponendo la rigida osservanza di norme e riti, sono ladri perché si sono impossessati del gregge che era di Dio, non certo loro, e briganti perché usano la violenza per sottomettere il popolo.
Ora invece appare Gesù, il legittimo pastore. E il legittimo pastore si descrive come colui che “entra dalla porta” e chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori, fuori dai recinti dell’istituzione religiosa giudaica, che con la schiavitù dell’obbedienza della legge, rende impossibile la comunione con Dio, fuori dagli “ovili ecclesiastici” sempre più rigidi e stretti, che impediscono di vivere una fede matura e libera nel mondo.I l termine “condurre” è lo stesso adoperato nell’Antico Testamento per indicare l’esodo. Quella di Gesù è una liberazione.Così Gesù spinge fuori tutte le sue pecore, e cammina davanti ad esse. Non un pastore di retroguardie, ma una guida che apre cammini e inventa strade, sta davanti e non alle spalle. Non un uomo di paura, di routine, che vede ovunque il lupo, che predilige il chiuso dell’ovile, ma una figura piena di coraggio e di inventiva: sa che l’erba nutriente e i pascoli abbondanti sono fuori del recinto ...
Egli non conosce un solo itinerario, sa che ci sono tanti possibili pascoli e li cerca, non prova sgomento e non trasmette angoscia alle pecore di fronte a paesaggi nuovi e inesplorati o di fronte a sentieri meno conosciuti. Non un pastore che rimprovera e ammonisce per farsi seguire, ma uno che precede e seduce con il suo andare, che affascina con il suo esempio: pastore di futuro. E le pecore lo seguono perché“conoscono la sua voce, voce che grida giustizia per gli oppressi, gli esclusi, gli ultimi, voce che risponde ai bisogni più profondi dell’uomo. Poi, più che una constatazione, è un consiglio quello che Gesù sembra dare: fuggite, fuggite da quelli che sembrano pastori, e in realtà sono lupi. E, come tali, portano soltanto distruzione e morte. Fuggite da coloro che sono estranei perché non ascoltano la voce del popolo, non sono vicini alla gente che a sua volta non li ascolta perché non hanno nulla da dire loro. Le pecore, il gregge, il popolo conosce solo la voce di chi lo ama, non la voce di chi lo vuole opprimere. Ebbene, commenta l’evangelista, “Gesù disse loro”, ai farisei, “questa similitudine”, “ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro.” Come mai non capiscono? Perché non sono le sue pecore. Loro naturalmente non sono dei sordi, ma degli ostinati. Capiscono che, se accolgono il messaggio di Gesù, del maestro che si era fatto “servo” di tutti e che annunciava e testimoniava l’amore di Dio verso le Sue creature con gesti e parole di cura, devono perdere tutto il loro potere, il loro prestigio, e, anziché dominare, devono mettersi a servizio degli altri. E questo non lo vogliono. Loro vogliono esercitare il dominio sul popolo, non il servizio. Allora Gesù, visto che non hanno capito, in maniera ancora più cruda e più chiara, rivendica di essere “la porta delle pecore”, e afferma: «Tutti quelli che sono venuti prima di me sono ladri e briganti; ma …», ecco la costatazione, «… le pecore non li hanno ascoltati.» Quelli che sembrano i pastori che dovrebbero difendere il gregge dai lupi, sono peggio dei lupi, perché uno dei lupi ha paura, invece dei pastori si fida. I leader religiosi si sono impossessati della gente, portandola alla rovina. Sono loro che, in nome di Dio, hanno sfruttato il popolo, sacrificandolo alle loro ambizioni, alla loro sete di potere, insensibili ai sacrifici che impongono e alle sofferenze che causano. Ma il popolo può essere sottomesso per paura, non per scelta. Il popolo può essere dominato, può essere soggiogato, ma quando finalmente ascolta il messaggio di libertà, ascolta un messaggio d’amore, ecco che il popolo rinasce. Quindi Gesù assicura che il popolo non li ha mai ascoltati. Loro hanno imposto il loro messaggio, ma non li hanno convinti. Gesù invece non impone il messaggio, proprio perché la sua parola convince. Questa è la caratteristica che contraddistingue il messaggio che viene da Dio da quello che non viene da Dio: il primo viene offerto, perché è un messaggio d’amore e l’amore può essere soltanto offerto, e mai imposto. Il messaggio delle autorità religiose invece viene imposto, è una dottrina che viene imposta. Perché? Perché i capi sono i primi a non credere nei suoi benefici.
E, continua Gesù, rivendicando ancora di essere la porta, una porta che però non si chiude: «Se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà …».
Il nostro non è un Dio dei recinti chiusi ma degli spazi aperti, di liberi pascoli. Gesù non viene a rinchiudere in un altro recinto, ma a dare la piena libertà, perché soltanto dove c’è la piena libertà c’è la dignità e la pienezza dell’uomo. “Io sono la porta”. Cristo è soglia spalancata che immette nella terra dell’amore leale, più forte della morte (chi entra attraverso di me si troverà in salvo); più forte di tutte le prigioni (potrà entrare e uscire). Allora chi si fida di Gesù e uscirà con lui “troverà pascolo”. E qui l’evangelista adopera il termine greco nomè, che assomiglia molto a nomos, “legge”. In Gesù non si trova una dottrina da osservare, ma un pascolo, l’amore che alimenta la vita degli uomini.Gesù promette a chi va con lui un di più di vita, promette di far fiorire la vita. Infatti, conclude Gesù con una delle frasi più solari dell’evangelo: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». Sono venuto perché abbiate la vita piena, abbondante, gioiosa. Non solo la vita necessaria, non solo quel minimo senza il quale la vita non è vita, ma la vita esuberante, magnifica, eccessiva; vita che rompe gli argini e tracima e feconda, vita che profuma di amore, di libertà e di coraggio.
In una sola piccola parola è sintetizzato ciò che oppone Gesù a tutti gli altri, ciò che rende incompatibili il pastore e il ladro. La parola immensa e breve è «vita». Parola che pulsa sotto tutte le parole sacre, cuore dell’evangelo, parola indimenticabile. Cristo non è venuto a pretendere ma ad offrire, non chiede niente, dona tutto. Vocazione di Gesù, e di ogni uomo, è di essere nella vita datore di vita.
Gesù non è venuto a portare una teoria religiosa, un sistema di pensiero. Ci ha comunicato vita e ha creato in noi l’anelito verso una vitapiù grande.
Allora urge cambiare il riferimento di fondo della nostra fede: non è il peccato dell’uomo il movente della storia di Dio con noi, ma l’offerta di più vita. Il messaggio di Gesù è infatti la risposta di Dio al bisogno di pienezza di vita che ogni uomo si porta dentro. E, quando si ascolta la sua voce, tutte le altre perdono importanza.
Violairis 11 maggio 2014