Il nuovo 416 ter del codice penale, cioè la norma sul cosiddetto scambio di voto politico-mafioso, approvato al Senato costituisce un indubbio passo in avanti per il contrasto al fenomeno criminale. Infatti, la vecchia norma prevedeva la punibilità di detto scambio soltanto nel caso in cui, a fronte dei voti offerti dall’organizzazione criminale, il politico corrispondesse una somma di denaro: ebbene, come evidente, tale norma era di difficilissima applicazione poiché sovente il politico che chiede i voti (all’organizzazione criminale) lo fa offrendo, come contropartita, altre prebende, cioè appalti, assunzioni o magari agevolazioni di vario tipo. Il legislatore, al fine di rendere davvero utile la norma in oggetto (ed evitare che la magistratura fosse costretta ad utilizzare la fattispecie del “concorso esterno”, che è fattispecie di creazione giurisprudenziale ed oggi di difficilissima dimostrabilità, tanto che numerosi sono i processi, con questo capo di imputazione nei confronti dei cosiddetti “colletti bianchi”, terminati con assoluzioni) ha predisposto che oltre al denaro sia punibile la contropartita che si fondi sulle cosiddette “altre utilità”: appunto, favori di vario genere posti in essere dal politico nei confronti dell’organizzazione criminale. Una norma attesa da tutta la magistratura, oltre che dall’avvocatura, perché puntualmente definita e chiara e pertanto di facile applicazione in sede dibattimentale, e quindi utile per contrastare il contributo criminale dei colletti bianchi. Nonostante ciò e nonostante il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, l’abbia definita una norma “perfetta”, non poco è stato il clamore intorno a questa norma, così scritta. Si contesta il trattamento sanzionatorio (ma che appare ponderato ed equilibrato, soprattutto in considerazione della pena prevista dall’art. 416 bis, cioè la pura associazione a delinquere) e la cancellazione dal testo della cosiddetta “disponibilità del politico nei confronti dell’associazione”, che appariva come frase del tutto simbolica e soprattutto priva di quella tassatività (chiarezza) propria della norma penale, che avrebbe creato non pochi problemi applicativi. Questo clamore, invero, non basava le proprie argomentazioni su giudizi ponderati e scientifici della norma appena votata, ma si limitava a parlare di indegnità del legislatore, compromesso con politici “interessati” all’annacquamento della norma, cedimento alla stessa mafia: e, ad agitare questo clamore, come spesso accade erano una certa antimafia militante, non poche star mediatiche dell’antimafia “ufficiale” ed anche alcuni partiti, su tutti il Movimento Cinque Stelle, che delle pulsioni della gente, sganciate da ogni ragionamento, hanno fatto la propria bandiera. Non è la prima volta che ciò accade: basti osservare quali e quante contumelie siano state riversate addosso al Professor Giovanni Fiandaca, luminare del Diritto Penale, o addosso allo storico della mafia, Lupo, a causa del loro saggio, nel quale trattavano di una certa inconsistenza giuridica del processo sulla trattativa stato-mafia (si badi: inconsistenza giuridica, non inconsistenza storica). E la ragione è sempre la stessa: non è permesso esporre dei dubbi, porsi degli interrogativi perché l’ufficialità dell’antimafia non lo permette. Se lo si fa si è tacciati di essere colpevoli di un abbassamento della guardia quando non, addirittura, di compromissione con il nemico. Ora, fermo restando che non si vuole, in alcun modo, porre in discussione quanto rilevante sia stata la stagione successiva alle stragi di mafia, e con essa l’azione coraggiosa e fondamentale di uomini e donne che hanno iniziato a parlare di una realtà prima, addirittura, negata, sono convinto che alcuni interrogativi sul modo di “fare antimafia” siano necessari. Perché se è fuor di dubbio la buona fede dei più, bisognerebbe domandarsi, anche, quante carriere (politiche e professionali) siano state erette sull’antimafia, senza però che i soggetti in questione avessero una reale preparazione, giuridica o di altro tipo, sul fenomeno. Bisognerebbe domandarsi se il giornalismo antimafioso (pessima definizione, perché giornalismo già vuol dire tutto) che spesso si riduce alla mera trascrizione delle ordinanze o delle sentenze della magistratura sia davvero utile al contrasto al fenomeno o sia, invece, più utile alla affermazione di alcune star che dettano, non si comprende a che titolo, il proprio vangelo. Non servirebbe, invece, un giornalismo che spieghi, ponga domande, dubbi e indaghi da se? Bisognerebbe, ancora, valutare se una certa retorica dell’antimafia, ormai, non abbia tramutato la stessa azione antimafia in una stanca litania, fatta di eventi e date da ricordare che, però, da sole non sono più sufficienti. Penso che una forte azione antimafia passi, soprattutto, da uno studio attento e puntuale del fenomeno e, soprattutto, della sua evoluzione: uno studio giuridico e sociale. Penso, davvero, che il modo migliore per essere al fianco di straordinari uomini coraggiosi, che con il loro lavoro contribuiscono al contrasto al crimine organizzato, (e penso al nostro vice questore Giuseppe Linares , oggi impegnato sul fronte del contrasto alla camorra, o al sostituto procuratore Di Matteo) sia quello di adoperarsi affinchè l’antimafia non diventi un affare personale per la propria carriera, un marchio che esime da ogni riflessione, una galassia impenetrabile e impermeabile a qualunque critica o dubbio. Paradossalmente servirebbe un ritorno alle origini, a quando, cioè, si confrontavano professori universitari, magistrati, avvocati, sociologi, e cioè prima dell’avvento di una antimafia che spesso è stata, in questo caso davvero, mortificata da chi alla sua ombra compiva carriere inspiegabili. C’è una immagine, forse retorica, che spesso mi torna in mente ed è quella del film di Pif “La mafia uccide solo d’estate”: quel padre che accompagna il proprio figlio in una sorta di via crucis sui luoghi delle stragi. Ho visto in quella scena un candore che ormai, raramente, trovo in molta antimafia, una generosità ed una passione civile che sono il contrario dell’ufficialità e del marchio su cui rischia di impantanarsi l’antimafia. Più “scientificamente” penso, invece, al Processo di Norimberga: quel processo si svolse con tutte le più avanzate garanzie difensive per i criminali nazisti, anche a fronte di coloro che (legittimamente) avrebbero preferito un processo più formale che sostanziale. Perché il vero contrasto al mostro criminale passa per la meticolosità dello studio e per la fatica ed il continuo migliorarsi di chi, quel mostro, persegue, e non dalla retorica di chi se ne serve.
Valerio Vartolo