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21/01/2014 19:11:00

Al “teatro abusivo”…Si spoglia il “re”. Il 9 Febbraio si replica al Sollima

 

Chi dunque immagina che venga

distrutto ciò che odia, si rallegrerà.

Spinoza, Etica, III

 

di Antonino Contiliano

 

 

Il Gruppo di Volontari del T.A.M. (Teatro Abusivo Marsala) ha messo in scena, nella versione di Gianni Rodari, la fiaba I vestiti nuovi dell'imperatore (o Gli abiti nuovi dell'imperatore) di Hans Christian Andersen. Il lavoro, diretto dal regista e attore Massimo Pastore, è stato già presentato due volte. La prima all’interno dei locali dello stesso T.A.M. di Via Turati (Marsala). La seconda volta è stato ospitato dal Comune di Petrosino. La terza rappresentazione (ingresso libero, come per le due precedenti) sarà per la Cittadinanza marsalese. Lo spettacolo sarà dato presso il Teatro Comunale “Eliodoro Sollima” (Marsala, 9-2-’14, ore 18).

A fine spettacolo sarà chiesto al pubblico in sala un libero contributo. La somma, visto il quantum raccolto, sarà così ripartito: 1) una parte sarà devoluta a “EMERGENCY ONG ONLUS” (c.c.p. 28426203); 2) una parte per un abbonamento ad una rivista/e teatrale/i che sarà destinata (in DONO) alla BIBLIOTECA COMUNALE DI MARSALA.

Non ci dispiace, in tempi di tristezza politica generale, attirare l’attenzione sulla natura critico-demistificante della riduzione teatrale della favola. È come se la critica, per meglio mediare e soggettivare opposizioni e dissensi, scegliesse, simulando il degrado in scena, la via fantastica e, surrealmente comica, l’azione del riso per spogliare (denudandone l’inconsistenza) il potere, le strutture e i personaggi che lo rappresentano, piuttosto che la via diretta dell’economia, dell’economia politica e del governamentale.

Gli stratagemmi inventivi della parola, della mimica e della gestualità dei corpi sono i veri protagonisti che materializzano e visualizzano la berlina e il ridicolo, cui la scena teatrale del T.A.M. sottopone il potere del capitale simbolico e gli stili di cui si ammantano istituzioni, forme, classi e personaggi delegati alla gestione del con-vivere e del suo ordine; personaggi sempre più spesso, invece, dediti alla tracotanza, alla violenza organizzata e al mal-essere e incapaci, o nolenti, di sottrarsi alla funzione servile e alla schiavitù degli ingranaggi. E ciò o per condivisione o per convenienza di status e conservazione del proprio capitale simbolico.

Il capitale simbolico è «ogni specie di capitale (economico, culturale, scolastico o sociale) quando è percepita secondo categorie di percezione, principi di visione e di divisione, sistemi di classificazione, schemi tassonomici, schemi cognitivi che siano, almeno in parte, il risul­tato dell’incorporazione delle strutture oggettive del campo considerato, ossia della struttura della distribuzione del capitale nel campo conside­rato. Il capitale simbolico, il quale fa sì che ci si inchini davanti a Luigi XIV; che gli si renda omaggio, che egli possa dare ordini e che quegli ordini siano eseguiti, che egli possa declassare, degradare, consacrare, ecc., esiste solo perché tutte le piccole differenze, i sottili segni di distin­zione nell’etichetta e nel rango, nelle pratiche e nell’abbigliamento, di cui è fatta la vita di corte, sono percepite da persone che conoscono e riconoscono praticamente (per averlo incorporato) un principio di diffe­renziazione che consente loro di riconoscere tutte quelle differenze attribuendo ad esse un valore, persone, in una parola, pronte a morire per una questione di copricapi. Il capitale simbolico è un capitale a base cognitiva, fondato sulla conoscenza e sul riconoscimento» (P. Bourdieu, Ragioni pratiche, 1995).

Il mal-essere individuale e sociale è odioso; e se si immagina di distruggerlo (nel caso con l’azione messa in scena dalla fantasia di una favola debordante) con il “riso” devastante, che insieme è produzione del ridicolo, allora, come dice il filosofo Spinoza, non rimane che gioirne.

Non si può non odiare, come scrive Spinoza nella sua Etica (Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico), quando affronta il tema delle passioni e degli affetti, qualunque moto (conatus: il movimento di ogni corpo che tende a conservare se stesso) di un setting politico che svalorizzi o diminuisca il bene comune e la felicità (l’aumento della potenza d’essere, il ben-essere) dei corpi individuali e/o dell’insieme del corpo sociale e politico. Per cui il soggetto che distrugge “ciò che odia” (l’odio “è la tristezza accompagnata dall’idea di una causa esterna” – Spinoza – che depotenzia la vita e l’esistenza, e che pertanto non può che essere distrutta) si “rallegrerà”. L’odio, dunque, non sempre è una passione detestabile e solo negativa. Non si può amare ciò che vuole assoggettare, asservire e sottrarre il bene/felicità che spetta a ciascuno e tutti, egualmente. Bene allora il ridere come macchina da guerra e i suoi attori militanti!

Il ridere del ridicolo come una lama affilata e frastagliata del riso (risata, risatina, irrisione, sussiego, riso strizzato, riso strozzato, riso sotteso, riso di corte e cortigiano…fantasmagorie del ridere) che taglia e sconnette i bordi e i limiti del divieto; che lascia libero il passo alle logiche sconvolgenti dei sogni, come alle cascate dell’arte e della poesia, perché le loro voci smascherino oppressioni e castrazioni. E il riso, guizzo sfuggente del sogno e della follia, è l’arma letale più efficace e vincente per denudare (vestendolo di ridicolo), come mostrano i ragazzi del T. A. M., il potere, i suoi re, i suoi funzionari e sacerdoti di corte e scorta. Un vero dispositivo del dis-ordine questi ragazzi (non attori professionisti ma entusiasta promessa potenziale) del “teatro abusivo” e di un orizzonte di senso conflittuale.

Generalmente prerogativa della follia, scrivono il poeta J. Baudelaire (L’essenza del riso) e la semiologa J. Kristeva, il riso «è “uno dei molti semi della mela simbolica” e di conseguenza è “ generalmente prerogativa dei folli” perché designa precisamente un’irruzione della pulsione contro l’interdetto simbolico (...) indica una legge interna al funzionamento del senso (…) compreso nella classe di tutti i fenomeni artistici che denotano nell’essere umano l’esistenza di una dualità permanente, la potenza di essere a un tempo sé e un altro”» (Julia Kristeva, La rivoluzione del linguaggio poetico, 1979).

In questa rappresentazione teatrale (diretta dal regista Massimo Pastore) della fiaba I vestiti nuovi dell'imperatore, la sorgente che distrugge il potere simbolico dell’Imperatore, dell’Imperatrice e della corte, è l’azione e l’effetto di due giovani sarti, i due creatori che ordiscono la trama del vestito di moda che sveste. Sono i due sarti illusionisti e manipolatori (i moderni artisti della pubblicità) che, arrivati da Merlopoli e in possesso di stoffa innovativa (“stoffa del niente”), ritmano il tempo scenico dello spettacolo. Il loro tessuto (fabbricato da loro stessi nel laboratorio fantastico del virtuale reale) è trasparente (rivelatore di inganni e disonestà) e capace di sbugiardare chiunque l’indossi; perché, senza meriti e valore, occupa certi ruoli ed esercita particolari mansioni (governo, ministri, capi, cortigiani, ecc.).

L’opera è, tuttavia, anche, il punto di vista di un osservatore che pone l’esperienza di una rappresentazione del vuoto: il re (il potere/il sistema) non c’è nel posto della sua stessa rappresentazione. Ma qui sarebbe opportuno anche il richiamo, oltre che all’Etica di Spinoza, al pittore Diego Velazquez con l’opera Las Meninas (Le damigelle d’onore). Ma ci limitiamo a una semplificazione. L’opera pittorica Las Meninas dipinge l’assenza (il vuoto) del posto del re; e lo fa con il rimando delle ri-flessioni speculari. Una serie di riflessi giocati con gli specchi (specchi per allodole o specchi di verità de-costruttrice?) che dice che il posto del re è vuoto: è lì dove non c’è.

Un paradosso?

Bene! Sarà bene allora vedere e capire di persona, Cittadinanza marsalese, invitandoti a partecipare, gratuitamente, a questo spettacolo del “teatro abusivo” di Massimo Pastore e dei suoi giovani attori! Il potere simbolico può essere smontato così come è stato valorizzato: incorporato può essere scorporato! Godere delle armi critiche della parola e della parodia, fantastica, e dell’ironia surreale del ridicolo è un apprendistato da sartoria che dà allegria, pensieri e suggerimenti (utili a tutti) per trasformazioni percettive e metamorfosi che toccano la visione della vita e i comportamenti di ciascuno. I nomi degli interpreti di scena?: Giovanni Lamia, Chiara Vinci, Stefano Parrinello, Sara Bonini, Diego Pulizzi, Cristina Genna, Davide Pastore, Rachele Vita, Giorgio Tranchida, Marina Genna, Francesco Pellegrino, Maria Chiara Cappitelli, Giorgia Amato,  Monica Pellegrino, Fausto Sammartano, Rosa Rallo, Germana Signorino, Mirko Giacalone (Regista: Massimo Pastore).



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