Minimi, cuore dell'evangelo
In quel tempo, rispondendo, Gesù disse: «Io concordo con Te, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai minimi» (Matteo 11:25)
Quest’ultima settimana l’ho passata a pensare a come ci saremmo salutati, dopo tutti questi anni. In particolare, ho pensato a come avrei voluto salutarvi io: per cui ho cambiato e ricambiato il testo della predicazione, nessuno, infatti, mi sembrava adatto all’occasione. Soprattutto, ancor più dei testi, ero io a sentirmi inadeguato alla situazione, del tutto impreparato a salutarvi: ancora adesso mi sembra un qualcosa di irreale, di là da venire.
Ho l’impressione che, come abbiamo sempre fatto, ci saluteremo per tornare presto a vederci, ad abbracciarci. E, soprattutto, a discutere, a riflettere, ad emozionarci, come sempre siamo riusciti a fare sedendo intorno a un tavolo, bibbia al centro e menti e cuori liberi, ad esercitare fantasia, creatività, passione. Sentendomi d’improvviso solo, mi è parso di smarrire, per un istante, la mia vena creativa, l’entusiasmo che, in questi anni trascorsi insieme, mi ha sempre accompagnato. Non sapevo che cosa ancora avrei potuto dirvi, dopo tutto quel che ci siamo detti; né sapevo come dirvelo: di volta in volta ciò che provavo a scrivere mi sembrava scialbo, banale, melenso. Mi è così tornata alla mente la frase di uno autore a me caro, Robert Musil, quando scriveva: «Quello che lo tormentava era l’inadeguatezza delle parole, la vaga consapevolezza che le parole costituiscano soltanto una scappatoia fortuita per esprimere quanto si è provato». E mi è sembrato che Musil, questa frase, l’avesse scritta per me.
Così ho compreso che la cosa migliore che potessi fare oggi era raccontare, raccontarvi raccontandomi.
E ho deciso di fermarmi, di sostare presso i ricordi e la loro dolcezza.
Ne sono affiorati alla mente svariati, molti allegri, alcuni tristi, tutti, comunque, intensi. Poi sono andato più indietro con la memoria e mi sono ricordato di quando ero ancora uno studentello, fresco di università, che si avventurava curioso e insieme quasi ignaro del loro contenuto tra le pagine bibliche, che in quel tempo avevo incominciato a sfogliare. Quando lessi per la prima volta il breve versetto di oggi, ricordo che rimasi impietrito: il cuore l’aveva trovato spiazzante o, per meglio dire, come si esprimerebbe la settimana enigmistica, «strano ma vero». «Io concordo con Te, Padre, che hai nascoste queste cose ai dotti per rivelarle ai minimi». Erano parole che non afferravo sino in fondo, ma di cui percepivo - con una sorta di intuito - la profonda verità. Mi segnarono. Poi, come sempre avviene, passai oltre; e lentamente, con il trascorrere del tempo, l’eco di quelle parole si fece sempre più flebile, sino a scomparire.
Fu un incontro a ridestarle, facendole uscire dall’ombra in cui le avevo relegate. Avevo ventiquattro anni e muovevo per la prima volta i miei passi incerti dentro il perimetro di una favela del Brasile: lì la vita, quella vera, mi è venuta incontro con tutto il suo carico di bellezza e di mistero. Mi è venuta incontro nelle storie dei minimi, nei loro sguardi, nei loro gesti. O povo, le donne e gli uomini della favela di Teofilo Otoni, in Brasile, mi hanno rimesso al mondo: a quel mondo che, da allora, non ho più potuto guardare con gli stessi occhi. Là Dio mi è venuto incontro con i piedi eternamente scalzi dei poveri, che hanno scavato, silenziosa, l’impronta che ancora mi porto dentro. Fu allora che riaffiorarono alla mente le parole di Gesù. E fu allora che incominciai a capirle.
Quattro anni dopo venne il tempo dell’Argentina, la terra che ora, a dieci anni di distanza dal nostro primo incontro, mi attende nuovamente.
Il primo ricordo ha il volto e i nomi degli abitanti di Villa Ilasa, una baraccopoli della periferia di Buenos Aires. Con i suoi bimbi, che sono di gran lunga gli insegnanti migliori, apprendevo quella lingua allegra e sensuale e imparavo ad amarla. Ricordo il viaggio che, tre giorni alla settimana, facevo per raggiungere quel luogo dimenticato dal mondo che, più che un quartiere, sembrava un ghetto. E ricordo l’incredulità che provai quando scoprii che tante delle adolescenti di Villa Ilasa non erano mai uscite dalla baraccopoli: per loro Buenos Aires, l’immensa, bellissima Buenos Aires, non era che un nome senza volto. Non potevo crederci: «Ma è qui dietro, ragazze!» - dicevo loro - «Basta prendere l’autobus». Mi guardavano in silenzio, inebetite. Allora, un pomeriggio, l’autobus l’abbiamo preso insieme: ricordo ancora la meraviglia a illuminare loro i volti e la gioia - silenziosa, inattesa - a rischiarare il mio.
Qualche mese dopo in quel 2004 intenso e difficile che cambiò la mia vita, l’Argentina assunse per me il volto del Chaco, una regione poverissima del nord del Paese, al confine con il Paraguay. Lì partecipavo ad un progetto interculturale con gli indigeni Toba, gli abitanti millenari di quella terra. Il nostro fu un avvicinamento lento, che portava con sé il peso di secoli di oppressioni e di violenze che i miei antenati avevano inflitto ai loro. Io, ai loro occhi, restavo pur sempre un uomo bianco: e dell’uomo bianco, specie oltre i confini della vecchia Europa, è sempre bene diffidare. Per cui sguardi sfuggenti e lunghi silenzi: nient’altro, per settimane.
Poi, a infrangere il muro, le donne, e il canto lungo la sponda del fiume, insieme con loro. Era il popolo più intonato in cui mai mi fossi imbattuto: voci armoniose, bellissime. Se faccio silenzio dentro di me, posso ancora udirle. Fu così che scoprii una cultura millenaria, spazzata via prima e messa ai margini poi, sino ad oggi, dal mondo da cui provengo e che mi ha nutrito, cresciuto, formato. Ancora una volta i minimi a togliermi il velo dagli occhi, a donarmi uno sguardo nuovo sulla vita e su di me.
America Latina, per me, è storia di ritorno, di un abbraccio a lungo atteso e finalmente più vicino. America Latina è la mia terra, la mia gente, perché è lì che sono venuto di nuovo al mondo: lì l’evangelo ha preso corpo e vita nella mia vita. America Latina è terra di quei minimi che colgono ciò che ai dotti rimane nascosto a causa di un’intramontabile presunzione, che conosco bene, poiché è anche la mia. A me, che la semplicità l’ho smarrita, è concessa una sola via per ritrovarla: stare in mezzo ai semplici, tornare a farmi plasmare dalle loro mani e dalle loro storie, vivere con loro e per loro. Qui con voi ho potuto farlo per sei anni: e vi sono grato, perché la vostra, di semplicità, mi ha cambiato profondamente, aprendomi gli occhi sul senso di una vocazione che, senza di voi, avrei smarrito.
Voi avete impedito alla mia sensibilità di inaridirsi, al mio spirito di perdere la sua innata curiosità, alla mia audacia di spegnersi. Grazie a voi non ho perso di vista il cuore della mia fede incerta e appassionata, racchiuso nel breve spazio di questo versetto che suscita in me memorie di incontri e desiderio ancora vivo di trasformazione. Insieme con voi ho fatto quel che è richiesto a chiunque aspiri a diventare un buon discepolo: ho camminato, lasciando che la vita mi plasmasse.
Ora, in questo cammino, è giunto il momento di mollare gli ormeggi e di spiegare le vele: ciascuno di voi mi ha donato il coraggio e lo slancio per decidermi finalmente a farlo, per non tergiversare più e rispondere così, dopo tanti tentennamenti, alla vocazione che Dio e la vita mi hanno rivolta.
Mi conoscete abbastanza, credo, per sapere che questo non basta affatto a farmi sentire pronto: come dice una canzone del mio amato Brasile, vivo «la bellezza di essere un eterno apprendista» e vado incontro alla vita, impreparato come sempre, come quando arrivai qui. Però oggi so perché vado: e non è poco. Non vi nascondo che i timori sono tanti, come in ogni scelta in cui mettiamo in gioco tutto il nostro essere e le poche convinzioni che lo mantengono saldo in una vita costellata da incertezze. Ed è dal cuore di questo dubbio che tutto circonda e tutto assale che emerge la mia fede più salda, che, proprio come Gesù, mi fa concordare con Dio per la sua scelta di semplicità. Lì, Padre, in mezzo agli ultimi, si annida il senso che mi affanno a cercare: lì, tra quegli esclusi nei cui volti e nelle cui storie hai stabilito la Tua dimora; Tu, che sei un Dio dei viandanti e che dei viandanti hai la stessa inquietudine, lo stesso desiderio di novità. Rendimi capace, solamente, di sbandare dietro di Te, fuori dalle rotte già tracciate, dai percorsi stabiliti. Fa’ che la mia vita, nei gesti prima che nelle parole, si converta ai poveri e per ciò stesso a quell’evangelo che ho promesso di realizzare ed annunciare. E allora quel che ancora rimane nascosto ai miei occhi mi apparirà finalmente chiaro, vestito, come Te, di semplicità.
Domenica 8 Dicembre 2013 – pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com