L’atto di misurarsi con quanto è accaduto e non dovrebbe mai essere stato sembra condannato a presentarsi come uno scacco. È avvenuto quel che l’animo paventava e il cuore temeva; oppure è successo quanto era imprevisto e che, ora, sconvolge la vita. Si è avverato l’evento che non si sarebbe mai voluto vedere, ha avuto luogo la disgrazia che lo sguardo non avrebbe mai desiderato incontrare e si è colpiti da un male che devasta l’esistenza. Allora è il tempo dell’afflizione, dello sconforto, dell’amarezza. I modi per reagirvi e per non cadere in quella che ai nostri giorni si definirebbe depressione possono coprire una vasta gamma.
Ribellione o rassegnazione, ricordo o oblio, metterci una pietra sopra o impegnarsi con memore consapevolezza a favore di altri. Ci è dato persino di trovare qualche conforto e di versare del balsamo sulle nostre ferite; non è davvero concesso di consolarci.
Rispetto al verbo consolare, attivo e passivo rimandano a esperienze di rapporti umani autentici, mentre il riflessivo si attaglia solo a surrogati e palliativi. La relazione, sia pur difficile, è costitutiva della consolazione. Alla creatura umana non è concesso nulla di più alto di riuscire a consolare il proprio prossimo; né vi è esperienza più indimenticabile dell’essere consolati. Ma non si può mutare quanto è stato. Nelle nostre mani non vi è alcun panno in grado di cancellare le tracce lasciate dal duro gesso dell’accaduto. La tabula non potrà mai più essere rasa. Né si dà restituzione. Quando la consolazione parla il linguaggio del risarcimento è invece falsa e bugiarda. Il consolare autentico è in grado di affacciarsi solo là dove la perdita è tenuta aperta. Giobbe è consolato sulla polvere e sulla cenere (Gb 42,7) e non quando è di nuovo pieno di figli e di possessi.
A colui che ha in sé solo pienezza non è concesso di consolare il prossimo suo. Non vi è consolazione senza la capacità di ospitare il dolore altrui e qui, come sempre, solo il vuoto può accogliere. L’impossibilità di identificarsi in toto con la sofferenza altrui è un presupposto per ospitarne un frammento in noi stessi. Il segreto della consolazione passa per questa porta stretta. Chi opera invece secondo la mentalità della compensazione non può consolare. Egli nega il vuoto incolmabile della perdita; reifica la vita consegnandola alla dimensione del possesso; egli può al massimo compensare, ma gli è precluso confrontarsi con le perdite vere che sono tali perché irreparabili. Dal suo agire non può giungere consolazione alcuna.
L’atto di consolare salvaguardia la mancanza, la custodisce e la ospita. È severa e grande realtà interumana constatare che chi ha sperimentato in sé una perdita si trova più di ogni altro nelle condizioni di consolare il dolore altrui. Il vuoto dell’uno non annulla quello del suo prossimo. Meno per meno qui non fanno più. A cadere è soltanto il muro dell’estraneità; ma è un crollo che muta la vita. Si crea una relazione nuova là dove altre erano state interrotte. L’umile speranza connessa alla consolazione sta nel provare che dei legami possono ancora sorgere e che essi sono tanto più autentici quanto più rinunciano alla pretesa di sostituire quelli venuti meno. La consolazione è un incontro tra povertà.
La seconda parte del libro del profeta Isaia (40-55) è conosciuta con il titolo di «Libro della consolazione». Un approccio quantitativo già dice qualcosa: il verbo consolare compare infatti in questa sezione più che in ogni altra (Is 40,1; 49,13; 51,3.12.19; 52,9); ma è la qualità quanto conta porre in luce. In quelle pagine si dichiara che il Signore consola il suo popolo in esilio e ha misericordia dei suoi poveri (Is 49,13). A importare è soprattutto l’aggettivo possessivo: consola il popolo e i poveri perché sono suoi. Qui però si è obbligati a prendere atto dell’inadeguatezza della grammatica italiana che qualifica in termini di possesso quanto andrebbe espresso come relazione. Il Signore consola coloro a cui si è legato; sono suoi perché non li dimentica e non perché sono una proprietà. Non potrebbe consolarli se non custodisse il loro vuoto. Vi è un verso che per lo più si rende con «aver pietà», bisognerebbe invece essere più fedeli alla sua radice e tradurlo con consolare: «Poiché il Signore consola Sion, consola tutte le sue distruzioni» (Is 51,3). Sono le devastazioni a dover essere consolate e lo sono allorché non le si dimentica. Sì potrà ricostruire ma non è la riparazione a consolare, a farlo è la memoria del Signore. Il profeta non attesta un sentimento di pietà, evoca un legame più profondo: la consolazione che dona dignità al dolore.
Il Signore che consola ha in se stesso tratti di povertà. Sì, è vero le pagine di Isaia sono costellate da grida di giubilo e di esultanza anche nei passi qui citati (Is 49,13); eppure la tonalità di impianto di questa parte del suo libro non è un esaltante do maggiore. Le parole poste all’inizio sono un “imperativo invocante”: «Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio». A chi è rivolto il grido divino? Vi è una voce di comando che gira per il mondo. Essa svela la povertà di Dio. Il Signore che qualifica il popolo come suo, si presenta incapace di consolarlo in prima persona. È decisivo comprendere che non si inizia con il linguaggio della promessa. Dio non afferma: «Consolerò, consolerò il mio popolo». Il Signore comanda e invoca, affida ad altri l’opera che solo lui potrebbe compiere. L’inizio del capitolo è una specie di anticipazione della voce che grida nel deserto a cui ci si riferirà qualche versetto dopo (Is 40,3). In entrambi i casi si riscontra una nota di indeterminatezza. Non c’è una comunità o un singolo a cui rivolgere il comandamento. L’imperativo si ammanta del linguaggio della supplica.
Il motivo addotto per giustificare il grido è che la misura della tribolazione è colma, che la colpa è scontata; Gerusalemme ha addirittura ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati (Is 40,2). Dio colpisce e poi ne resta come sconcertato. Secondo la parola profetica, Egli sembra pentirsi del male da lui stesso introdotto nel mondo sotto forma di punizione (Gn 3,10). Il pentirsi come il consolare appartiene all’ambito del «dopo». Anch’esso si confronta con quanto è successo e non sarebbe dovuto avvenire e, senza negarlo, anzi tenendolo ben fisso davanti agli occhi, vuole mutare segno all’accaduto. Ecco perché nell’incipit del «Libro delle consolazioni» traspare quanto la tradizione rabbinica renderà esplicito ricorrendo a parole proprie di chi è intimo al suo Dio. La fedeltà al testo qui ne implica la riformulazione. Il possessivo del Signore, vale a dire la forza della relazione, comporta che la sofferenza della creatura ricada sul Creatore. I rabbini traducono infatti: “Consolami, consolami popolo mio”. Neppure Dio può consolarsi da se stesso.
Nell’espressione «consolazione del Signore» il genitivo va dunque inteso in senso sia oggettivo sia soggettivo e in questa ambivalenza vi è l’unica teodicea conforme a una creatura umana fatta a immagine e somiglianza di Dio.
Violairis - 30 novembre 2013 - da www.chiesavaldesetrapani.com